Ci mancava solo questo. Adesso anche il Milan si mette a remare contro Berlusconi. Bell’ingratitudine, verrebbe da dire, visto gli sforzi profusi dal Cavaliere negli ultimi giorni di calciomercato. Eppure è così. Ibrahimovic e Robinho non bastano a battere il Cesena dei poveri. Anzi, è tutto il Milan a naufragare. Strano, perché nell’ultima settimana pareva che in Italia esistesse una sola squadra. E sui giornali, non solo sportivi, gli aggettivi si sprecavano: Robinho, Pato, Ronaldinho e Ibra? Il quadrato magico che il mondo tremare fa.
D’altronde la cosa era prevedibile. Con le elezioni un giorno imminenti e l’altro no, la chiamata alle armi di tutti gli apparati ideologico-pubblicitari del regime è da resa dei conti. E a nessuno è consentito di fallire. Anche a quelli dormienti, che di solito si svegliano a comando, un po’ come la balera fantozziana quando arrivano i clienti. Così la squadra partito, la cui costosissima funzione da venticinque anni è organica alla propaganda. Solo a luglio aveva fatto sorridere la conferenza stampa di Berlusconi a Milanello, quella con i tifosi fuori che contestavano: allora il Cavaliere aveva glorificato la rosa rossonera (“Ronaldinho è il miglior giocatore di tutti i tempi!”) e sciorinato i virtuosi bilanci della società. E ci è mancato poco che prendesse il belloccio Yepes e lo battesse sul bancone per garantirne l’infrangibilità. Poi durante l’estate il vento politico è cambiato e con esso lo scopo di una squadra di calcio. Con il nemico alle porte spendere il meno possibile non era più virtuoso: meglio essere la regina del mercato.
Una storia già vista. Il calcio è una clava, la testa su cui va a battere sempre quella. Nell’81, quando ancora Berlusconi non aveva comprato il Milan, ma corteggiava non corrisposto l’altra squadra di Milano, un mundialito per nazioni in Uruguay servì a scardinare il monopolio della Rai, trasformando il sistema delle cassette ideato da Galliani in un network nazionale. Per farlo si mosse la P2, prima sulle testate vicine alla loggia e poi in parlamento. Calcio e televisione, insomma, il connubio perfetto. Disse una volta Berlusconi a Marcello Dell’Utri: “Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? Questo vale per i prodotti, i politici, le idee”. E quale prodotto, in Italia, conta più adepti del calcio?
Così venne il Milan, squadra di giocatori belli alti e vincenti (i cameraman di famiglia avevano l’ordine di inquadrare Paolo Maldini da vicino e il piccolo Nanu Galderisi invece no); una squadra partito cui all’occorrenza si demandavano le invettive più stravaganti, anticipando i miti fondativi del berlusconismo (quando, nel 1993, la magistratura indagò sui fondi neri ruotati intorno al trasferimento di Lentini, la curva del Milan espose lo striscione: “Toghe rosse, giù le mani dal Milan”). Mentre nei giorni della discesa in campo nel 1994, la squadra partito, vincendo la Coppa dei campioni, permise a Berlusconi di pronunciare la famosa frase: “Faremo l’Italia come il Milan”. Dopodiché ci furono le campagne acquisti a scadenza, che poi è sempre quella elettorale: la rinviata cessione di Kakà, l’acquisto di Ronaldinho e, quest’estate, quello di Ibrahimovic e Robinho. Perché, con tutto il rispetto, l’Italia non può mica essere come Huntelaar e Borriello.
Non a caso, un anno esatto fa, Galliani chiamò il Milan “la squadra dell’amore”, un eden calcistico dove tutti sono belli e si vogliono bene. Era settembre. Solo tre mesi dopo, Berlusconi avrebbe definito il suo Pdl “il partito dell’amore”. Lo schema, evidentemente, aveva ottenuto qualche effetto e poteva essere replicato. Poi vennero le radiose giornate che avrebbero portato alle elezioni regionali. Detto fatto, la corsa allo scudetto del Milan sarebbe durata fino a quella data. Per poi tornare dormiente.
Per questo la sconfitta di Cesena e la reazione prima di Galliani in tribuna e poi di Berlusconi alla festa di Atreju, è un’anticipazione di quel che accadrà se il berlusconismo perderà le elezioni. L’arbitro – che sia Napolitano che le avrà indette oppure Fini che le avrà provocate – sarà tacciato di essere di sinistra, o peggio di essere comunista (oggi sinonimo di malfattore: da notare che Berlusoni ha detto “arbitri di sinistra”, ma molti mezzi d’informazione hanno riportato “arbitri comunisti”). E se sapevamo che un comunista non poteva fare il magistrato, ora sappiamo che non può nemmeno fare l’arbitro di calcio. Perché chi è di sinistra non è obiettivo per definizione. Ebbene, a quando le leggi razziali che ne precluderanno i pubblici uffici?
Il problema italiano è il conflitto d’interesse ma nessuno lo dice più. Così a farne le spese oggi è il campionato di calcio. Povero Braschi, proprio non vorremmo essere nei suoi panni. Il referente della commisisone arbitri è già stato insultato da Galliani in tribuna a Cesana. La sua colpa non è quella di aver lavorato per il Siena senza permesso dell’Aia nel 2003. Perché per quello fu squalificato. Ma quella di essere stato riabilitato da Guido Rossi ai tempi di calciopoli. E tutti sanno che Guido Rossi è un pericoloso comunista. Dunque, se il Milan sarà sfavorito dagli arbitri, anche Braschi giocoforza sarà comunista. Certo, una volta gli avrebbero dato del “cornuto”. Ma evidentemente i tempi cambiano e con essi gli insulti. Meglio una moglie fedifraga, che una grazia ricevuta da Guido Rossi. Meglio cornuti che di sinistra.
di Matteo Lunardini