Oggi propongo un testo di Stefano Boni, docente di antropologia politica e antropologia sociale all’università di Modena e autore, fra l’altro, di un bel libro intitolato Vivere senza padroni (Elèuthera, 2006).
I fatti. Negli ultimi dieci giorni, tre figure di spicco delle istituzioni che governano il paese sono stati accolti con fischi e zittiti in occasioni pubbliche. Marcello Dell’Utri e Renato Schifani (Pdl) sono sommersi dalle grida “mafioso”, Raffaele Bonanni (Cisl) da quelle “venduto”, accusato di fare gli interessi di confindustria piuttosto che quelli dei lavoratori. A tutti è stato gridato “vergogna!”. Si tratta di proteste esclusivamente sonore, a parte quella contro Bonanni in cui un manipolo cerca di avvicinarsi al palco, viene bersagliato con sedie e manganellato, nel mezzo lancia un fumogeno che sfiora il sindacalista.
Oggi le manifestazioni di protesta popolare in Italia contro le istituzioni politiche, ciò che rappresentano e ciò che decidono sono, in realtà, ben più ampie di questi episodi. Alcune sono legali: la raccolta di firme contro la privatizzazione dell’acqua, la moltiplicazione dei comitati cittadini, gigantesche manifestazioni autoconvocate. Altre hanno adottato strumenti di lotta che non temano l’illegalità: il blocco dei lavori della Tav in Val di Susa richiede spesso di occupare terreni, bloccare strade, respingere trivelle. In Campania i cittadini si sono scontrati con la polizia per fermare le discariche. Diverse anime del corpo sociale esprimono rabbia contro i politici, dal popolo viola ai terremotati, dai centri sociali ai grillini, dai comitati ai gruppi di cani sciolti. L’Italia s’è desta.
La reazione delle istituzione è la difesa unanime della casta. Gli eventi sono raccontati sempre dall’ottica dei potenti: nessun media da spazio comunicativo ad un contraddittorio, alle ragioni di chi contesta. Si assiste ad una rassegna di politici e giornalisti, sempre le stesse facce che dicono tutti la stessa cosa: chi contesta è un terrorista, squadrista, antidemocratico. Parole d’ordine stantie che vengono irradiate ogniqualvolta qualcuno osa sfregiare la patina rassicurante che i politici vorrebbero presentare, ogniqualvolta viene disturbata la coreografia dei potenti.
Maurizio Sacconi e Fabrizio Cicchitto (Pdl) evocano il terrorismo. Ormai ci si scandalizza e si da del violento, del potenziale terrorista, anche a chi si limita a fischiare un oratore. La contestazione non è mai stata così fiacca come negli ultimi decenni: in un passato non troppo distante il popolo reagiva con barricate, regicidi, rivolte, bande armate; ora c’è un’assoluta pace sociale che fa comodo a chi governa. Le espressioni pubbliche di dissenso, anche quelle assolutamente pacifiche, vengono sempre più limitate e penalizzate: il sindaco di Roma vuole tassare le manifestazioni, è stata presentata una proposta di legge per aumentate le pene per chi blocca le strade (n. 3475, 2010), sono state addirittura vietate le assemblee nei campi dei terremotati. Insomma si colpisce in maniera sempre più violenta chi non si limiti alla solita, inutile, petizione, raccolta di firme, presidio. La violenza chi protesta, in realtà, la subisce: la subisce quando le amministrazioni edificano infrastrutture dannose (treni, aeroporti, discariche, inceneritori) senza consultare i cittadini; quando vede la ricchezza accumularsi nelle stesse mani; quando vengono promulgate leggi che beneficiano solo le multinazionali; quando si devastano i servizi pubblici, dalla scuola alla sanità, dai trasporti all’università. Chi sono i terroristi quelli che devastano l’ambiente, che generano miseria spartendosi i soldi pubblici, che approfittano delle catastrofi naturali, che si arricchiscono infondendo paure infondate di pandemie, quelli che rendono il lavoro sottopagato, precario, senza garanzie o chi protesta? Chi protesta non è un terrorista: fa parte di una parte crescente della popolazione disillusa dalle istituzioni, esasperata dagli abusi, nauseata dalla retorica dei politici, ferita da decisioni imposte. Non viene ascoltata, e allora grida.
“Squadristi” accusa Piero Fassino (Pd), ribadisce Bonanni (Cisl). Ma gli squadristi sono sempre stati al soldo dei potenti e hanno avuto appoggio, sostegno e copertura dalle istituzioni. I contestatori di oggi non hanno protezioni altolocate, non fanno carriera. Il problema di un cittadino che non si rassegna a esercitare il suo ruolo pubblico solo con il voto è che i mezzi di protesta consentiti non hanno efficacia, vengono archiviati senza che ci siano conseguenze tangibili. E appena si adottano delle forme di lotta, di espressione, di dissenso che escono dai canoni legittimi ma sono le uniche efficaci, si viene tacciati di squadrismo.
“Antidemocratici”, si difende Schifani e ripete una decina di volte indemoniato Enrico Letta (Pd), qualche giorno dopo. I fischi non hanno lasciato parlare gli oratori invitati della casta, dispensatori di discorsi ufficiali amplificati dai media. Ma i cittadini quando possono parlare ad un pubblico da un palco? Quando hanno accesso alla televisione i contestatori? L’attuale pseudodemocrazia si regge su un accordo monopolistico che garantisce ad un manipolo selezionato di potenti il diritto esclusivo di parlare di politica; questa setta, a prescindere dal colore partitico, ripropone gli stessi contenuti con angosciante uniformità. La potenza mediatica si accanisce contro chi contesta senza tener conto di un fattore indispensabile: il potere delle parti in causa. Da un lato le istituzioni, che orchestrano e controllano i principali flussi comunicativi; dall’altro la cittadinanza, passiva ricettrice di messaggi. Vivere in democrazia significa accettare supinamente ogni sopruso ed essere massacrati dai media quando si protesta?
“Siete l’esatto opposto di quello di cui c’è bisogno in questo paese”, chiosa Letta. Quello di cui c’è bisogno è un dibattito pubblico polifonico e aperto, in cui si possa dire quello che viene censurato dai mass media, non c’è bisogno dell’ennesima messa in scena retorica del potere con Letta e Bonanni. Quello che dovevano dire lo abbiamo già sentito ed assomiglia a quello che dicono tutti gli altri che siedono dietro le scrivanie dei palazzi istituzionali, nei consigli di amministrazione delle imprese, davanti a noi sullo schermo Tv. Dal palazzo non se ne accorgono, ma la gente è stanca di stare a guardare. Finché di fronte alla contestazione, la reazione sarà la crocefissione massmediatica, saranno i manganelli, e gli arresti, la gente si esprimerà come può, innanzitutto deturpando le coreografie di un potere che non sopporta più. Non possiamo che rallegrarci che gente comune si riappropri di un attivismo politico che le è stato negato dallo stato democratico, che si prenda spazi di comunicazione e di protagonismo, che fermi le opere dannose, che si opponga alla spoliazione dei propri spazi vitali. Non è ancora la costruzione di un nuovo ordine generato dal popolo per il popolo, ma la delegittimazione del dominio che subiamo è un primo passo per creare una alternativa.