Nelle interessanti conversazioni con le amiche e gli amici che mi gratificano intervenendo su questo blog, registro una diffusa ostilità nei confronti della politica. Che mi lascia molto perplesso. Preoccupato.
Forse perché ho i capelli bianchi, eppure resto convinto che converrebbe distinguere “la” politica da “questa” politica: l’orrido mercato delle vacche e la fiera delle vanità (che talora stinge sul malavitoso) in cui siamo stati catapultati in questi ultimi anni. Cui forse converrebbe trovare un altro nome, visto che “politica” è il discorso pubblico per definire obiettivi condivisi e l’individuazione di chi viene incaricato di realizzarli.
In effetti, da (troppo) tempo assistiamo all’eclisse del discorso pubblico, soppiantato dalla pura tecnologia del Potere, che aggrega il necessario consenso utilizzando le tecniche dello star-system. Un fenomeno che trova la propria matrice in quello che – sempre a mio avviso – è il cuore del problema: il Politico che ormai si è sottomesso all’Economico. Oggi, l’Economico finanziario e mediatico.
Se andiamo a esaminare la storia dell’Occidente moderno, c’è sempre stato una sorta di rapporto competitivo tra la politica (nella sua forma democratica) e le ristrette plutocrazie (tendenzialmente oligarchiche). Tanto che nel suo discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti del lontano 1933, Franklin Delano Roosevelt esprimeva la necessità di “tenere a bada i pubblicani privi di scrupoli”: “la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico”.
Nel secondo dopoguerra è stata la politica a mettere le briglia agli “spiriti animali” del Capitalismo con lo Stato Sociale e la regolazione pubblica, dando vita a un trentennio di crescente benessere e sempre maggiore inclusione.
Tutto questo termina a partire dal fatidico 1973: guerra del Kippur (con l’innalzamento del prezzo delle materie prime), crescita del costo del lavoro (grazie agli effetti redistributivi dei conflitti sociali scoppiati negli anni precedenti), colpo di stato in Cile (prova generale del ritorno alle soluzioni autoritarie golpiste). È da quel momento che prende avvio un’operazione complessa di restaurazione a livello mondiale, che corre dai nomi dei Ronald Reagan e Margaret Thatcher fino al loro mediocrissimo epigono George Bush junior. Una restaurazione che si traduce nel lasciare le briglia sciolte agli interessi speculativi di ristretti gruppi capitalistici, abrogando ogni forma di controllo pubblico (“Supercapitalismo”, lo chiama l’economista Robert Reich).
Con un non trascurabile particolare: la politica neoliberistica è la negazione della politica. Negazione a cui si sono opportunisticamente accodati gruppi consistenti della Sinistra, convinti della propria personale convenienza a traslocare nel campo dei (presunti) vincitori: le cosiddette “Terze Vie”, da Tony Blair fino al nostro impareggiabile Massimo D’Alema.
Si è venuto così costituendo il nuovo ordine mediatico che utilizza le nuove tecnologie comunicative di massa per convincerci che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che – nello stesso tempo – la nostra situazione privilegiata è messa a repentaglio da minacce incombenti, ansiogene quanto indefinite: dal terrorismo all’immigrazione.
Così siamo scivolati nel virtuale e quella cosa che continuiamo a chiamare politica è venuta trasformandosi nel set di un reality; dove personaggi recitano la parte dell’uomo forte cui affidarsi per trovare una qualche salvezza; la risoluzione dei propri problemi, delle paure create artificialmente. Quasi ovvio che Silvio Berlusconi si trovi perfettamente a proprio agio in un tale contesto.
Meno logico che le presunte opposizioni lo inseguano autolesionisticamente sul suo stesso terreno. Come quando si scelse di candidare Francesco Rutelli a leader dello schieramento antiberlusconiano solo in quanto reputato “più telegenico”.
Tutto questo nella più assoluta inconsapevolezza che la Sinistra non si aggrega attorno ai “personaggi” ma nasce come movimento dal basso: dai bisogni e dai movimenti delle donne e degli uomini concreti; dalle loro lotte, cui offrire indirizzi strategici e organizzazione.
D’altro canto, proprio il discreditamento della politica democratica è funzionale al mantenimento di questo stato delle cose. Perché elimina ogni possibile irruzione del mondo della vita reale nello spazio manipolatorio creato dal virtuale.
Il motivo per cui diventa estremamente importante recuperare il senso della politica rettamente intesa. Perché – per dirla con il fondatore del pensiero politico moderno, Thomas Hobbes – senza di essa “la nostra sarà più brutale, più breve, più grama”. Un po’ come le giornate desolanti e desolate che oggi ci tocca vivere.
In altre parole, state attenti: postpolitica… postdemocrazia… sono marchingegni per continuare a fotterci.