Del discorso di Bersani a conclusione della Festa Democratica di Torino mi ha colpito un passaggio, che ho letto dai giornali, sicuramente non tra i più significativi, ma secondo me rivelatore: “… è questo che intendiamo parlando di alleanza per la democrazia: faremo anche le primarie, ma prima vengono i programmi, poi le persone” (cito verbatim dal resoconto de Il FQ).
Mi ha colpito perchè vi ho colto un equivoco profondo o forse il sintomo di un modo superato dai tempi (ma ben vivo nella mentalità di molti politici di professione) di concepire la formazione del consenso e il ruolo dei partiti. Un profumo antico di avanguardia del proletariato. Cerco di spiegarmi meglio.
In un partito dove le primarie sono il metodo principale (Artt.18-20 dello Statuto del PD), la scelta del programma e quella del leader non possono logicamente essere disgiunte. I punti del programma, quindi le priorità che si propongono agli elettori e i messaggi che li veicolano, sono legati indissolubilmente ai candidati che li incarnano, alla loro personalità, alla loro storia, alla loro figura e in ultima istanza alla loro credibilità.
I candidati alle primarie si confrontano sulle idee (come potrebbe essere diversamente?) e chi vince la contesa risponde agli elettori proprio sulla realizzazione di quelle idee e sulla coerenza che mantiene sui valori sottostanti. In America né il Partito Democratico, ne’ quello repubblicano hanno un programma preciso e articolato. Sono i candidati alle primarie che ad ogni elezione lo elaborano e lo presentano al pubblico. Obama ha vinto e quindi ipso facto il suo programma è prevalso su quello della Clinton; analogamente G.W. Bush impose il suo su quello di Mc Cain quattro anni prima. Se in futuro vincerà la Palin saranno i valori e gli interressi (in senso lato) che lei rappresenta (i Tea Parties?) a dettare l’agenda.
Lo stesso avviene in tutti i maggiori partiti europei in cui la leadership è contendibile (anche senza le primarie). Posso citare a riguardo esempi abbastanza noti: Blair formulo’ un programma di rottura con la leadership laburista che lo aveva preceduto, Shroeder la pensava diversamente da Lafontaine, Strauss Khan e la Aubry viaggiano su diverse frequenze. Va aggiunto che inevitabilmente le opinioni del leader potranno divergere da quelle di minoranze interne. Ma in sostanza una volta che un leader emerge dalla scelta dei militanti e simpatizzanti (del partito o della coalizione) a mio avviso non e’ assolutamente pensabile che possa portare avanti un programma deciso da altri in separata sede. Quindi non e’ possibile stabilire prima il programma e dopo (quando esattamente?) eleggere il candidato premier.
Il metodo delle primarie cambia la natura di un partito e plasma la democrazia interna in forme diverse da quelle che prevalevano nei partiti novecenteschi, che piaccia o meno. Infatti se Ignazio Marino avesse vinto le primarie dello scorso anno, il PD avrebbe un volto e seguirebbe priorita’ diverse. Non voglio esprimere un giudizio di merito, o fare un paragone, mi limito ad osservare che l’enfasi di Marino era su temi che Bersani riteneva meno cruciali e viceversa. Ha vinto quest’ultimo e quindi chi gli ha conferito fiducia (e anche chi non gliel’ha conferita) lo giudichera’ sulla capacita’ di realizzare quanto promesso.
L’alternativa che il passaggio nel discorso di Bersani sembra evocare a me appare piuttosto incongrua e di difficile applicazione. Chi dovrebbe formulare il programma ex ante? Un conciliabolo di notabili riunito intorno ad un caminetto? Un’assemblea? Funzionari di partito? Intellettuali organici? E non e’ assurdo aspettarsi che chi vince le primarie si presti a fare da semplice esecutore? Si dovrebbe ipotizzare che i candidati “giurino fedeltà” al programma prima ancora di presentarsi. Quindi chiederebbero il voto solo sulla propria persona senza potersi differenziare sulle proposte politiche. A me francamente sembra improponibile, ma se mi sfugge qualcosa e se qualcuno riesce ad intravedere una logica, vi invito a spiegarla nei commenti.
Volendo riassumere in due parole, le primarie sono uno strumento innovativo (almeno per l’Italia) se servono a selezionare non solo il leader (e indirettamente la squadra che lo affianca), ma allo stesso tempo le politiche che egli propugna e che troveranno applicazione nell’azione di governo in caso di vittoria alle urne. Fare diversamente provocherebbe un guazzabuglio di confusione e di ipocrisie.
Perchè, in definitiva, le idee camminano sulle gambe degli uomini non sul fumo dei proclami.