Tra le varie, fantasiose iniziative che la Gelmini ha architettato e – più o meno esplicitamente – praticato per far fuori personale e tagliare una volta per tutti ogni sogno di stabilizzazione al personale precario, c’è quella di attribuire gli “spezzoni” di cattedra (le ore di greco, matematica, educazione fisica che non sono coperte da insegnanti interni in una o più classi di una o più scuole, che prima venivano occupate dai precari, nominati per quel numero di ore) al personale già assunto in organico.
Vuol dire, cioè, che il dirigente scolastico può chiedere ad un docente – poniamo – di Italiano e Latino come me, di seguire non solo le proprie classi, per il totale contrattuale delle canoniche 18 ore di insegnamento settimanale; ma di farsi carico di un’ulteriore porzione di cattedra (le 4 o più ore di Italiano non coperte in un’altra classe), arrivando a fare un numero di lezioni settimanali superiori a quelle previste dal contratto ordinario. In questo modo si ottiene un risparmio generato dalla perdita di posti di lavoro: abbattimento di costi sociali e ottimizzazione delle risorse già disponibili. Ottimizzazione o razionalizzazione postfordista? La risposta sta nella legge 133/08 – da cui parte la “riforma Gelmini” – che, nell’articolo 64 (“contenimento di spesa nel pubblico impiego”) prevede il taglio di 140.000 posti di lavoro nella scuola.
Il dirigente può legittimamente chiedere, si diceva, per una prestazione straordinaria fino a 24 ore settimanali. Ma il docente può altrettanto legittimamente rifiutare.
Noi insegnanti di ruolo, quindi, possiamo partecipare, rafforzandola, alla lotta dei precari contro la falcidia dei loro posti di lavoro. Come? Dicendo no. E costringendo, di conseguenza, il Miur a nominare il personale precario.
In tempo di crisi economica è ovviamente più facile scatenare la guerra tra poveri e indebolire atteggiamenti di solidarietà e di responsabilità nei confronti di chi si trova in una condizione di precarietà non per demeriti personali, ma per congiuntura storica negativa: ad esempio, aver avuto la sorte di essere precario ai tempi di Gelmini – Tremonti – Brunetta.
Lo scorso anno, invece, la sollecitazione di pur comprensibili appetiti economici (arrotondare il “lauto” stipendio da insegnante può far comodo a molti) ha prodotto l’effetto di avvantaggiare la politica di contrazione del numero di docenti in organico nelle scuole. Con il risultato di rendere ancora più drammatica la posizione di molti colleghi precari. E di trasformare un lavoro di responsabilità, impegno e coinvolgimento relazionale e didattico in un mestiere asservito alla logica del peggior cottimo, destinato a impoverire il percorso formativo degli studenti.
Ma ha significato, molto più gravemente, l’ulteriore conferma della perdita di vista della scuola pubblica come bene collettivo, come patrimonio di tutti, come palestra in cui praticare la bella dimensione politica in senso ampio e democratico che è intrinseca al nostro lavoro e alla nostra funzione civile nella società. Che stiamo progressivamente smarrendo.
Siamo ancora in tempo per non essere complici del più grande licenziamento di massa della storia della scuola italiana.