Giustizia & Impunità

La mafia, cruna dell’ago della chiesa in Sicilia

Qualche settimana fa il senatore a vita Giulio Andreotti, condannato in primo e secondo grado per collusione mafiosa, prescritto ma non assolto dalla Cassazione, da sempre onorato e rispettato dal Vaticano e dai vescovi, anche subito dopo la sua “non assoluzione” per i reati mafiosi commessi fino al 1980, quasi a “conforto religioso” per le sofferenze del processo “cristianamente” sopportate, si è potuto permettere dagli schermi della TV pubblica di rievocare e offendere un martire della mafia siciliana: quel suo “se l’andava cercando” sull’uccisione di Giorgio Ambrosoli (mandante Michele Sindona, stimato amico dello stesso Andreotti e di una discreta schiera di “padrini” siciliani) sembra una delle apparentemente innocenti battute-aforismi alle quali il senatore a vita ci ha abituati da 60 anni ad oggi. E’, invece, la spia di una cultura radicata e diffusa nell’affollato mondo dei benpensanti di ogni strato sociale.

La stessa espressione l’ho sentita a Palermo da onesti cattolici e buoni preti quando si diffuse la notizia dell’uccisione, per mano mafiosa, di don Pino Puglisi: “se l’è cercata”, perché sì, era un buon prete amato dai fedeli per la sua attività pastorale, ma si impicciava di cose che andavano oltre il perimetro della chiesa parrocchiale e della sacrestia.

Don Pino è stato ucciso 17 anni fa, nel suo quartiere Brancaccio, per ordine dei mafiosi fratelli Graviano e per mano del sicario Salvatore Grigoli che, oltre a confessare, ha rivelato le ultime parole pronunciate dal prete con alla nuca l’arma dell’assassino: “vi stavo aspettando”. Il pentito Antonino Giuffré, sostenitore confesso di Marcello Dell’Utri e di Forza Italia, ha rivelato che quei fratelli Graviano, mandanti dell’assassinio Puglisi, erano anche gli intermediari tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. E Gaspare Spatuzza, pentito dal 2008 e subordinato dei Graviano, ha confermato le dichiarazioni di Giuffrè.

A 17 anni da quel delitto, Silvio Berlusconi governa questo disgraziato paese, Marcello Dell’Utri (due condanne per mafia) siede nel Senato di questa sfortunata Repubblica, e il quartiere Brancaccio continua ad essere territorio di mafia povero e abbandonato, quasi come lo aveva trovato don Pino.

Quel “se l’è cercata” continua ad essere l’humus culturale dal quale la Sicilia, la sua classe dirigente e la gerarchia ecclesiastica non sono riusciti e non riusciranno a tirarsi definitivamente fuori se, al di là di sporadiche e timide esternazioni, non attaccheranno alla radice il male endemico della mafia che infetta ancora la cultura popolare, la politica e le istituzioni. Così era negli anni cinquanta –gli anni della “transustanziazione” tra Cosa Nostra e la democrazia cristiana- quando l’arcivescovo di Palermo, il “continentale” lombardo Ernesto Ruffini, gridava ai quattro venti “la mafia è un’invenzione dei continentali per diffamare la Sicilia”, e polemizzava con il “continentale” Danilo Dolci e il Pastore evangelico Pietro Panascia che denunciavano le infiltrazioni mafiose in ogni angolo della vita sociale. Così fu negli anni del dopo Ruffini, quando il suo successore, card. Francesco Carpino, accerchiato dai “padrini” democristiani e nell’impossibile tentativo di sottrarsi alla continuità delle compromissioni del suo predecessore, decise di buttare la spugna e si dimise contro la volontà del Vaticano che lo relegò in esilio nel suo paesino natale in provincia di Siracusa, a soli 64 anni, età considerata giovane per un dirigente ecclesiastico. Il momento di svolta sembrò essere, alla fine del 1970, la decisione vaticana di inviare a Palermo, come arcivescovo, Salvatore Pappalardo. Fino a quel momento Pappalardo aveva ricoperto solo incarichi diplomatici. E diplomatica fu la missione assegnata al nuovo arcivescovo: mediare tra la continuità dell’era Ruffini e la fallita discontinuità della breve parentesi Carpino. Continuità voleva dire riprovevole compromissione della cupola ecclesiastica con la cupola democristiana dei Salvo Lima, dei Giovanni Gioia, dei Vito Ciancimino e dei loro affiliati. Ai quali Pappalardo non negò mai la “paternità pastorale” del vescovo, essendo essi fedeli cattolici della sua diocesi “cristianamente” impegnati in politica, non in nome, ma per conto e per gli interessi della Chiesa. E, pertanto, sempre disponibili ad elargire benefici pubblici a favore della Chiesa e delle sue strutture.

Fu questa la “cruna dell’ago” che Pappalardo non riuscì a varcare. Da un lato chiedeva ai preti di non coinvolgersi in nessuna forma pubblica di “lotta alla mafia”, di non negare i funerali e i sacramenti a noti boss mafiosi che li chiedevano, considerando questo un dovere pastorale al quale la Chiesa non poteva sottrarsi; dall’altro assegnava solo a se stesso il compito di esternare pubblicamente ed ufficialmente il pensiero della Chiesa sul fenomeno mafioso. Compito che svolgeva solo in occasione dei grandi funerali: famoso quello del generale Dalla Chiesa la cui sovraesposizione mediatica lo consegnò all’opinione pubblica mondiale come il vescovo antimafia. “Vescovo antimafia” sui mass media mondiali, ma energicamente contrario a “compromettersi” con quanti in diocesi, preti e laici, si esponevano in prima persona contro il dominio della mafia sulla gente e sul territorio. A don Pino Puglisi negò un pubblico e ufficiale sostegno nella difficile lotta alla cultura mafiosa che il parroco aveva avviato nel quartiere Brancaccio, oltre il perimetro della chiesa parrocchiale; si rifiutò di unire la sua voce di vescovo a quella di 15 parroci del cosiddetto triangolo della morte (Bagheria-Casteldaccia-Altavilla Milicia) che denunciavano “lo scandalo di vedere uomini politici e amministratori comunali affollare i funerali di noti mafiosi”; destituì dall’oggi al domani un parroco della periferia palermitana per avere pubblicamente rifiutato i favori del democristiano Vito Ciancimino, “benefattore” dei giovani disoccupati del quartiere, e per avere denunciato la gestione mafiosa e costretto alle dimissioni il presidente -“uomo di Ciancimino”- e l’intero Consiglio d’amministrazione di un importante ente ospedaliero presente nel quartiere. “Se l’è cercata” –ha gridato Pappalardo ai parrocchiani che protestavano per la destituzione del loro parroco.

Dopo che la triste stagione dei grandi funerali di Stato aveva conferito all’altalenante Pappalardo l’immeritato titolo di “vescovo antimafia”, la chiesa siciliana, almeno nella sua rappresentazione istituzionale, si è rinchiusa in un “religioso” silenzio e si è guardata dal partecipare attivamente e pubblicamente alla lotta di liberazione dalla mafia della Sicilia e di tutto quanto in essa, vive, sopporta e spera. L’unico sussulto pubblico e coinvolgente lo ha portato in Sicilia il piemontese don Luigi Ciotti che, attraverso l’associazione “Libera”, ha risvegliato migliaia di coscienze, orgogli e speranze di riscatto dal giogo mafioso. Dinanzi alle vivaci iniziative di Libera e all’impegno personale di don Ciotti, generalmente le istituzioni ecclesiastiche rimangono a guardare, appagate, ormai, dalla supplenza totalmente e comodamente affidata al “santino” don Giuseppe Puglisi per il quale chiederanno al Papa l’elevazione agli onori degli altari. I settori più aperti del cattolicesimo palermitano hanno avanzato la richiesta di dichiararlo “martire della mafia”. Il Vaticano ha risposto sì alla canonizzazione, ma rifiuta ancora, nonostante l’ampia documentazione a favore fornita da diversi teologi, la seconda richiesta. E con una speciosa spiegazione teologica: il titolo di “martire” può essere tributato solo ai cristiani ammazzati “in odio alla fede”.Vengono riconosciuti “martiri”, infatti, solo i morti ammazzati sotto i regimi pagani (Impero romano) o atei (regimi comunisti); non quelli ammazzati sotto i regimi di destra perché, essendo generalmente cattolici i dittatori di quei regimi, non possono avere ucciso in “odio alla fede”. Ecco l’altra “cruna dell’ago” della teologia romana: la mafia non si considera e non è considerata pagana, men che meno atea, anzi osserva le pratiche religiose e si vanta di difendere la religione dal comunismo ateo. La teologica conseguenza è che i mafiosi di Brancaccio non potevano uccidere don Pino in odio alla loro stessa fede, ma solo perché a Brancaccio ostacolava le loro imprese. Insomma, davvero “se l’era andata a cercare”.

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