Prima l’Ue, ora anche Nicolas Sarkozy. Dopo mesi di stallo l’ipotesi di una tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf) sembra essere tornata prepotentemente di moda perlomeno in Europa. Le parole pronunciate oggi dal presidente francese di fronte alla platea delle Nazioni Unite hanno infatti rilanciato definitivamente una proposta che aveva goduto di grande popolarità nei giorni più bui della crisi salvo poi patire un significativo deficit di consensi alle prime avvisaglie di (fragile) ripresa.
Nel marzo scorso il parlamento Ue aveva chiesto ufficialmente alla Commissione di valutare l’ipotesi di istituzione della tassa ricevendo, tre settimane più tardi, una risposta sostanzialmente negativa. Agli analisti era stato sufficiente redigere un documento di appena otto pagine per smontare pezzo per pezzo la proposta puntando il dito contro il rischio di violazione dei trattati di libera circolazione, la riduzione della liquidità e la crescita del costo del capitale. I parlamentari avevano reagito con rabbia: il coordinatore all’Economia e agli Affari Monetari dei Socialisti Europei Udo Bullmann aveva addirittura definito il documento un autentico “insulto” aprendo così la strada a una frattura che pareva insanabile. Il vento, per così dire, è cambiato nelle scorse settimane, all’improvviso e senza un motivo apparente. La Commissione ha rilanciato uno studio di fattibilità ipotizzando l’applicazione di un’aliquota dello 0,1% sugli scambi di valute, titoli, obbligazioni e derivati. Gettito fiscale stimato: 400 miliardi di euro.
Gli studi condotti in sede Ue, unitamente all’ultima uscita di Sarkozy e al mai sopito sostegno espresso dal cancelliere tedesco Angela Merkel, rilanciano così quel fronte europeo chiamato ora a svolgere un ruolo di primo piano in occasione del prossimo G20 di Seul che aprirà i battenti l’11 di novembre. Un ruolo impegnativo per Francia e Germania, chiamate a sconfiggere lo scetticismo di Usa e Canada che alla Ttf preferiscono notoriamente l’ipotesi più soft di una tassa patrimoniale sui profitti bancari (la cosiddetta bank levy). Gli oppositori contano sul sostegno delle lobby finanziarie e delle argomentazioni pro-liquidità che tanto successo continuano ad avere in un mercato ancora convalescente. I sostenitori rispondono con il crescente attivismo dei movimenti e le solide argomentazioni di almeno un paio di “padri nobili” come John Maynard Keynes e James Tobin. Ma anche, se non soprattutto, con la forza delle cifre.
La proposta più gettonata negli ultimi tempi ipotizza l’applicazione di un’imposta dello 0,05% su tutte le operazioni finanziarie condotte su valute, azioni, obbligazioni, derivati e altri strumenti. Secondo gli attivisti della campagna internazionale Make Finance Work, una simile aliquota garantirebbe ogni anno un gettito globale 655 miliardi di dollari. Più o meno il Pil dell’Olanda, all’incirca il doppio della cifra necessaria a sostenere i programmi quinquennali di aiuto allo sviluppo e di contrasto al cambiamento climatico nel Pianeta. L’imposta, come se non bastasse, rappresenterebbe un forte disincentivo per gli speculatori, colpiti inesorabilmente in ogni singola frenetica operazione, senza penalizzare, al contrario, le operazioni finanziarie di medio e lungo periodo. Un sistema decisamente valido, insomma, per frenare quell’euforia speculativa alla quale nessuna crisi potrà mai servire da lezione. Ma anche la risorsa ultima, forse, per risistemare quelle finanze pubbliche su cui pesa il conto della crisi: 13.600 miliardi di dollari per il solo salvataggio del sistema finanziario globale.