“Sei sposato? Hai figli? Che lavoro fai? Quanto guadagni in Italia?”. Queste domande, che tutte insieme appaiono a un europeo qualcosa a metà tra l’ingenuità e l’insolenza, mi sono state rivolte a bordo del volo Delhi-Helsinki da un ragazzo indiano sulla trentina. Si chiama Anirvan, è titolare di un business nel settore delle forniture mediche, e ha tutta l’aria di appartenere a quella classe medio-alta che può permettersi un volo intercontinentale, lusso inimmaginabile per più della metà della popolazione che quando è fortunata guadagna 300 dollari al mese. L’indiano mi ha interrogato candidamente, come se avesse trovato in me una rarità antropologica. Alle sue domande ho risposto con sufficienza – sbagliando – che nonostante abbia passato i trenta anni non sono sposato, e che guadagno molto meno di quanto un indiano favoleggi a proposito degli stipendi pagati nella “ricca” Europa. Sperando di aver soddisfatto finalmente la sua curiosità, mi sono di nuovo immerso nella lettura di quotidiani e settimanali indiani, che mi avrebbero tenuto al riparo da altre domande.
Invece la più invasiva, e per me fastidiosa è arrivata quando il loquace funzionario, faccia aperta da ragazzone e pinguedine degna di un simpatico Ganesh – il dio elefante raffigurato ovunque nel Sub-continente – ha insistito per sapere che lavoro fanno i mei genitori. Qui la sua sorpresa si è moltiplicata, superando quella per la mia riluttanza al matrimonio (e per lungo tempo in passato persino alla stabilità di coppia) come anche il suo disappunto per i magri introiti di un giornalista in costante trasferta nella per lui mitologica Gran Bretagna. “I miei sono in pensione adesso” “Quindi tu li aiuti”, ha incalzato logicamente. E io: “Piuttosto qualche volta sono ancora loro ad aiutare me…”.
Silenzio di entrambi. Al fastidio è subentrato l’imbarazzo. Lui, trentenne, sposato e con una figlia di 5 anni è la norma in India, e dovrebbe poterlo essere anche altrove, mentre io sono l’eccezione. Lui guarda al futuro del suo Paese con speranza, forse persino con fiducia, nonostante dissesti, corruzione, povertà e malattie di ogni genere che ancora lo assediano e ne minano le aspirazione alla giustizia sociale. Continuo a rispondergli senza troppa cordialità soltanto perché ho paura, e dubito del mio futuro personale come di quello del mio Paese. Io sono l’Europa con il suo orgoglio decadente, e l’Italia con le sue fragilità, lui l’India piena di contraddizioni e aspirazioni. Il mondo al contrario sono io, non lui.
Nell’Odore dell’India, Pier Paolo Pasolini descriveva un Paese muto e disperato, in cui i giovani sono certi solo che dovranno “restare all’inferno”. Era il 1961, l’Italia provava a credere in un futuro migliore, dove magari i figli sarebbero stati meglio dei padri, in termini tanto di beni materiali che di democrazia. Oggi invece qualcosa di simile accade proprio da loro, da un’altra parte del mondo che non è più l’Italia né l’Europa, ma l’India. Mentre noi Italiani, tra stupore, imbarazzo e qualche rimpianto, stiamo a guardare.