Ormai è ufficiale: la recessione è finita. E’ durata dal 2007 al 2009 ed è costata agli Stati Uniti 7,3 milioni di posti di lavoro. Gli americani hanno perso il 21% dei loro asset in quella che è stata “la crisi più lunga dai tempi della Grande Depressione”. A dirlo è il National Bureau of Economic Research (NBER), il maggiore centro per la ricerca economica negli USA. Gli accademici del NBER hanno stabilito ieri che il periodo di recessione si è chiuso nel giugno del 2009, dopo aver tenuto in apprensione l’America per 18 mesi. Nella storia della crisi finanziaria scatenata dai mutui subprime questa dichiarazione “è una pietra miliare”, uno spartiacque. Così almeno sostiene il Wall Street Journal. Anche se l’economia continua a crescere a un ritmo lentissimo, con tassi di disoccupazione ancora troppo alti. E non sembra farsi impressionare dalle statistiche degli accademici.
Certo, i segnali positivi non mancano: si è evitato – per ora – il salto all’indietro in una nuova crisi, i dati del settore immobiliare sono meno drammatici del previsto e le imprese hanno chiuso gli ultimi trimestri con ricavi in aumento. In più, dopo il crash di maggio, le borse sono tornate a salire e le paure di una crisi finanziaria in Europa si sono gradualmente attenuate. Ma la situazione è ancora molto incerta.
“Non abbiamo detto che l’economia è tornata in salute”, ha dichiarato il NBER. “Abbiamo solo scritto che il periodo di declino dell’attività economica è finito. Non c’è dubbio che ci troviamo ancora in un periodo difficile e che ci vorrà molto tempo prima di tornare ai livelli pre-crisi”. Anche l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) è dello stesso parere: “le precedenti recessioni negli Stati Uniti non hanno comportato danni di lungo termine all’economia, o una crescita duratura della disoccupazione, ma questa recessione è diversa ed è possibile che abbia effetti negativi anche molto tempo dopo la sua fine”.
C’è ancora crisi, quindi. Grossa crisi. E presto potrebbe scoppiare una nuova bolla. Stavolta a saltare in aria potrebbero essere gli Stati, piegati dai debiti. Non è una novità. La notizia era già circolata in primavera ma poi, dopo il salvataggio della Grecia e le politiche di austerity approvate in tutta Europa, era tornato l’ottimismo. Ora, invece, si trema di nuovo. “Non chiedetevi se i governi falliranno, ma come falliranno”, ammonisce un rapporto della banca d’affari Morgan Stanley, pubblicato a fine agosto. “La crisi del debito sovrano non è europea: è globale. E non è finita”, si legge. Al deficit fiscale pre-crisi si è aggiunto il peso della recessione, con gli Stati che sono stati costretti a scendere in campo per salvare il sistema finanziario con soldi pubblici. E, in futuro, si aggiungerà il peso delle pensioni, “il deficit fiscale creato dall’invecchiamento della popolazione”.
In pratica, mentre nel dopoguerra i paesi sono riusciti a ridurre l’indebitamento (che in alcuni casi era molto più alto rispetto a quello attuale) grazie a una crescita economica straordinaria e a una popolazione più “giovane”, oggi questo slancio in avanti non sarebbe più possibile. Come se ne uscirà? “Le alternative sono due”, scrivono gli analisti di Morgan Stanley: “o gli stati dichiareranno bancarotta” (ipotesi remota, ma non impossibile), oppure, più probabilmente, cominceranno a vessare chi ha investito in titoli di stato, e quindi ha in mano il debito pubblico. L’oppressione del popolo dei bot (ma anche degli investitori istituzionali che hanno in pancia miliardi di euro in titoli di stato) si potrebbe manifestare in molti modi: per esempio con l’inflazione, che permette agli stati di ripagare il debito con “moneta svalutata”, oppure con incentivi (fiscali o normativi) alle istituzioni (banche, fondi pensione, ecc..) per costringerle ad accollarsi il debito pubblico a condizioni svantaggiose. In questo modo si eviterebbe il fallimento degli stati e chi ha i bond avrebbe in mano qualcosa in più della carta straccia. Una carta un po’ più pregiata. Che però non renderebbe più niente.