Dopo settimane in trincea tra veleni, polemiche e manovre azionarie, la guerra di logoramento scatenata dai grandi soci di Unicredit contro l’amministratore delegato Alessandro Profumo arriva alla battaglia decisiva. A sorpresa ieri in serata si è appreso che il board dell’istituto è convocato per oggi con all’ordine del giorno la verifica dei rapporti con il top management. Tradotto, significa che gli amministratori potrebbero mettere ai voti la sfiducia al numero uno in sella da quindici anni, il manager che ha gestito la trasformazione del vecchio Credito Italiano in un colosso internazionale.
Una crescita scandita, per citare solo le tappe più importanti, dalla fusione con le casse di Verona e Torino, poi il grande salto oltrefrontiera con la scalata alla tedesca Hvb e infine l’acquisizione di Capitalia-Banca di Roma. In caso di dimissioni di Profumo non è detto, anzi sembra improbabile, che si arrivi già oggi alla designazione di un nuovo capoazienda. Secondo indiscrezioni alcune deleghe potrebbero passare al presidente, il tedesco Dieter Rampl, da settimane in rotta di collisione con l’amministratore delegato.
E d’altra parte Profumo può contare su ben quattro vice, l’ultimo dei quali, Federico Ghizzoni, nominato proprio pochi giorni fa. Insomma, l’organigramma sembra nutrito quanto basta (forse anche troppo secondo i critici) per poter gestire un eventuale periodo di transizione. Comunque, come sempre questi casi, si è messo in moto il consueto totonomine. Le voci sui possibili candidati alla successione si concentrano su nomi come Giampiero Auletta Armeni-se, Fabio Gallia, Claudio Costamagna. Di conferme, però, neppure l’ombra.
Profumo del resto è sulla graticola ormai da mesi. Già all’inizio dell’anno la questione della riorganizzazione interna, il cosiddetto bancone, aveva sollevato critiche e perplessità da parte delle fondazioni che temevano di perdere peso con un riassetto che dava un taglio netto ai poteri decisionali delle controllate sul territorio (Torino, Verona, Bologna, Palermo). Poi è esplosa la questione degli azionisti libici, passati dal 4,6 per cento di fine 2009 al 7,5 per cento di questi giorni. Una quota che si aggiunge al 4,9 del fondo di Abu Dhabi, spuntato a giugno nel libro soci. La doppia novità ha finito per alimentare i sospetti nei confronti dell’amministratore delegato. L’arrivo in forze degli investitori arabi è sembrato a molti osservatori un tentativo di Profumo di trovare nuove stampelle al suo potere declinante. Nessuna dichiarazione ufficiale, ma a dar voce alla delusione di alcuni soci si è mossa la politica, con le uscite a ripetizione del sindaco di Verona Flavio Tosi contro la scalata di Gheddafi & co. Queste però sono questioni di contorno, problemi ingigantiti a livello mediatico con l’obiettivo di creare tensione intorno ai vertici della banca.
Per uscire dal gran polverone di questi giorni sul destino di Unicredit e di Profumo, conviene piuttosto partire da un dato. Un numero che la dice lunga sullo stato delle cose nella più grande, nella più internazionale delle banche italiane. Ebbene, conti alla mano, il secondo trimestre di quest’anno, quello che va da fine marzo a fine giugno, ha dato i risultati più deludenti da molto tempo a questa parte. Neppure nella seconda metà del 2008, nel pieno dell’uragano delle Borse, l’utile di Unicredit era sceso così in basso. Solo 262 milioni di profitti, contro i 691 milioni dell’ultimo trimestre di due anni fa, quando, bene o male, il bilancio venne salvato da massicci proventi fiscali.
Allora non è solo questione di Gheddafi e della miniscalata libica nel capitale dell’istituto. E anche la riorganizzazione interna lascia il tempo che trova. I grandi azionisti, le fondazioni di Verona e Torino, adesso più che mai temono di ritrovarsi con un pugno di mosche. Proprio loro che nei mesi scorsi hanno a più riprese aperto il portafoglio per sostenere il rilancio della banca e la poltrona dell’amministratore delegato. Se Unicredit si sgonfia, se in Borsa il titolo non recupera, se i dividendi non arrivano, per i soci forti sono guai seri.
Il 60% circa dell’attivo della Fondazione Cariverona, di poco superiore ai 5 miliardi di euro, è investito in titoli della banca di Profumo. Quest’anno la partecipazione ha fruttato un dividendo di soli 3 centesimi per azione. Una trentina di milioni sugli oltre 3 miliardi che rappresentano il valore della quota di Unicredit (4,9 per cento) nel bilancio dell’ente veronese. L’anno scorso al posto del dividendo vennero distribuite azioni gratis ai soci. E proprio vendendo sul mercato questi titoli la fondazione scaligera è riuscita a salvare il conto economico. Nel 2010 però sarà difficile ripetere la manovra. E anche in Piemonte, dove il potente Fabrizio Palenzona (vicepresidente di Unicredit) tira le fila della Fondazione Cassa di Torino (Crt), guardano al futuro prossimo con una certa preoccupazione. In gioco ci sono quasi 900 milioni, e cioè un quarto circa degli investimenti complessivi dell’istituzione torinese che di recente ha investito pesantemente su Generali, anche qui senza grandi soddisfazioni in Borsa. Come dire che ormai non c’è più tempo da perdere. Si comincia dal ribaltone in Unicredit.
di Vittorio Malagutti
da Il Fatto quotidiano del 21 settembre 2010