Caro Eugenio,
domenica, nel tuo consueto editoriale su Repubblica, hai affrontato la questione politica cruciale: “La sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?”. Per formulare una diagnosi, ma soprattutto per indicare una terapia, hai creduto di poter dividere “il popolo di sinistra” secondo “due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti”, che puntualmente elenchi. Ma il dramma, concludi, è che “finora i cuochi [la nomenklatura Pd] si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa”. Conclusione impietosa ma ineccepibile (di cosa si siano occupati in realtà è noto: carriere e altri interessi personali, non sempre confessabili). Credo invece che fuorviante sia la polarità che istituisci tra sognatori e realisti. Del resto ammetti tu stesso che “spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona”. E un classico della Realpolitik come Max Weber ammoniva che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.

Occhiuto realismo

Atteniamoci comunque al più occhiuto realismo. Tu insisti, giustamente, che anche in politica, e forse più che mai in politica, almeno quella democratica, bisogna chiamare le cose col loro nome. Che un’arancia è un’arancia.
E un riformista? Un politico che realizza riforme, direi. Sui sedici anni che ci dividono dalla famosa “discesa in campo” di Berlusconi, circa la metà hanno visto il centrosinistra al governo. Riforme? Nessuna. E dire che non c’era poi molto da sforzarsi. Cominciando dal famoso “conflitto di interessi” per il quale la legge c’è già, risale al 1957, esclude dalla vita politica i privati che abbiano concessioni pubbliche (di valore superiore a una tabaccheria, fu spiegato allora). Sulla base di quella legge Berlusconi non era eleggibile. Bastava che la giunta parlamentare per le elezioni la rispettasse. Non lo fece, neppure col centrosinistra in maggioranza. Calpestando la “legge eguale per tutti” che è scritta nelle aule dei tribunali, avallando l’opposta “Costituzione materiale” secondo cui “Berlusconi è più eguale degli altri”. Che coincide – mi insegni – con quella della geniale Fattoria degli animali di Orwell (dove gli animali “più eguali” sono i maiali).

Né fu distrutto il duplice e mortificante monopolio televisivo: di Berlusconi sulla tv privata e della lottizzazione partitica su quella “pubblica”. Anzi, il centrosinistra varò un provvedimento (ad personam! Ad Berlusconem!) per vanificare la sentenza che aveva riconosciuto il diritto di Europa 7 di avere le frequenze abusivamente utilizzate da Rete 4. E nulla fece, va da sé, per eliminare il monopolio della pubblicità, che è lo scrigno di sicurezza contro ogni pluralismo televisivo. Quanto alla giustizia, riformismo significa far concludere (che è l’opposto di far morire) i processi in tempi ragionevoli, cioè brevi. Basterebbe calcolare la prescrizione sul rinvio a giudizio, e gli azzeccagarbugli degli imputati eccellenti non avrebbero più interesse a tirar le cose in lungo. E introdurre il reato di “ostruzione di giustizia”, sul modello e con la severità anglosassone, mentre invece si è depenalizzato di fatto quello di falsa testimonianza. E garantire le intercettazioni legali a costo zero, come dovere delle compagnie telefoniche che ottengono le lucrosissime concessioni pubbliche, punendo invece con durezza inaudita quelle illegali degli infiniti Pio Pompa, amorevolmente protette anche dal centrosinistra col segreto di Stato. Non parlo del raddoppio delle risorse materiali per l’amministrazione della giustizia e per l’azione delle forze dell’ordine (cancellieri che scrivono a mano, benzina per le volanti pagate di tasca propria…) perché sento già l’obiezione: mancano le risorse. Mancano? E i 275 miliardi annui (annui! Calcolo della Confindustria che corregge la precedente stima di “soli” 125 miliardi) rubati dall’evasione non sono risorse pubbliche? Perché nei sette anni dei due governi Prodi e del governo D’Alema ne sono stati recuperati solo alcuni insignificanti coriandoli? Non dovrebbe essere questa la prima azione del più moderato dei riformismi?

Sai bene, caro Eugenio, che potrei continuare a lungo. Del resto il giornale che tu hai fondato è costretto a ricordare costantemente la latitanza di riforme necessarie, e assolutamente possibili. Smettiamola almeno, perciò, di parlare di riformismo e di riformisti per i dirigenti del centrosinistra, TUTTI, visto che hanno governato a lungo quanto Berlusconi e non hanno riformato un prospero (su scuola e laicità hanno toccato l’efferatezza). Sono degli inguaribili NON-RIFORMISTI: un’arancia è un’arancia. Ma Prodi la seconda volta aveva la sincera intenzione di fare sul serio, sostengono i suoi nostalgici, solo che non aveva i numeri. È proprio vero che le nere disgrazie del presente colorano di rosa le grigie mediocrità del passato. Se Prodi ebbe al Senato solo un paio di voti di vantaggio, non dipese da un destino cinico e baro e meno che mai dagli elettori, ma da una decisione delle nomenklature del centrosinistra, che Prodi puntualmente ingoiò. Erano infatti pronte quasi dappertutto le “Liste civiche regionali”, accreditate di risultati variabili tra il 4% e il 12%: bastava presentarle in tre Regioni e al Senato Prodi avrebbe avuto la stessa maggioranza che alla Camera. Erano liste sul modello di quelle sperimentate in molte comunali, non liste “girotondine”. Tuttavia la nomenklatura dei D’Alema e Veltroni disse no. E alla richiesta di spiegazioni del rifiuto, visto che venivano accolte nell’alleanza le liste dei pensionati e dei consumatori (risultati previsti: da prefisso telefonico): perché loro sono un problema tecnico, voi potreste essere un problema politico. Tradotto: non vogliamo alleati che non siano totalmente proni alle nostre nomenklature. E così si sono consegnati mani e piedi allo statista di Ceppaloni. Ne converrai anche tu: lungimiranza e realismo non abitano presso i nostri non-riformisti. Un’arancia è un’arancia. Quanto al ritorno sulla scena di Veltroni l’Africano, sottoscrivi la sua proposta di ricorrere a un “Papa straniero”, cioè, fuor di metafora, a un leader della coalizione che venga dalla società civile anziché dai partiti. La proposta non è nuova, venne avanzata qualche mese fa proprio dal direttore del tuo giornale, Ezio Mauro. Figurati se non sono d’accordo anch’io, che ho cominciato a proporre un “partito azionista di massa” – che nascesse dal crogiuolo di sinistra de-nomenklaturizzata e movimenti della società civile – già all’origine di MicroMega, ormai un quarto di secolo fa.

Il problema è CHI. Perché Veltroni ha già dimostrato cosa intenda per società civile con le nomine parlamentari dei Colaninno jr e dei Calearo. Quest’ultimo, benché in formato mignon, perfino più reazionario di Marchionne. Non è certo piegandosi ancora di più all’orizzonte dei (dis)valori berlusconiani che il centrosinistra sconfiggerà Berlusconi. Perciò è essenziale che il “Papa straniero” sia soprattutto un “Papa protestante”. Altrimenti tra il regime Berlusconi-Marchionne e una sua copia appena inzuccherata di veltronismi gli elettori del centrosinistra resteranno a casa a milioni. Che è quanto sta accadendo da anni e che costituisce il vero problema, come tu stesso sottolinei: un terzo di coloro che andranno a votare non ha ancora deciso. È dunque semplice dabbenaggine quella dei politici che calcolano il 50% più uno, necessario per vincere, come somma delle quote attuali dei partiti. Imbarcare Casini conta zero. Conta solo convincere quell’elettore su tre ancora indeciso. Contano perciò i (pochi) obiettivi programmatici, e la credibilità di chi governando promette di realizzarli. I nomi, per un “Papa protestante” non mancano: economisti, giuristi, giornalisti, scienziati, magistrati (niente imprenditori o finanzieri, per favore). Quanto al programma, ha ragione Michele Serra, la firma oggi più amata (dopo Altan) del giornale che hai fondato, quando sostiene che “la benzina politica e culturale per reagire al degrado… negli ultimi vent’anni è stata reperibile soprattutto nei movimenti della società civile” e che “il dramma del Pd è il suo moderatismo congenito”, mentre “con la fine del vecchio mondo bipolare serviva una nuova radicalità democratica”. Un’arancia è un’arancia.

Un programmagià scritto

Realizzare la Costituzione, il programma già c’è. L’opposto di quanto il centrosinistra ha fatto nei suoi sette anni di governo. Se non era utopistico nel ’48, oggi dovrebbe essere addirittura ovvio. Non è perciò con alchimie partitocratiche, che finirebbero nel nulla dei veti reciproci e delle ambizioni incrociate, che si troverà il leader capace di unificare il “popolo della Costituzione”. Ma con un grande sommovimento di opinione pubblica (e di lotte e movimenti nella società civile), che metta capo a primarie vere, aperte, senza vantaggi per i candidati di apparato. Un sommovimento nel quale una testata come quella che hai fondato ormai giocherà un ruolo esplicito, dopo il tuo “endorsement” al Papa straniero. Repubblica è certamente un grande giornale. Pure, non solo Il Fatto rappresenta l’unico successo editoriale in una stagione di crisi, ma l’unica voce che sta coinvolgendo nuovi giovani lettori, ormai tutti in fuga verso il Web. Ecco perché conto che una tua risposta costituisca l’inizio di un più ampio e serrato confronto, che faccia da catalizzatore del sommovimento di opinione pubblica con cui – attraverso i giornali, i siti Internet, il mondo del volontariato, le lotte civili e sociali – potremo far uscire l’opposizione dal suo stato attuale di cronica minorità.

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