È la più grave crisi diplomatica degli ultimi anni, quella che si sta consumando in queste ore tra Pechino e Tokio. Nuovo gigante dell’economia e del credito il primo, culla della tecnologia e dello sviluppo, con problemi di crescita e instabilità politica da anni diversi anni il secondo.
Il contrasto, scoppiato a causa della detenzione del capitano di un peschereccio cinese da parte delle autorità giapponesi, si manifesta in apparenza come una crisi di nervi tra due nazioni in competizione dal punto di vista economico e politico. Dietro la rivendicazione territoriale di un’isoletta a largo di Taiwan, si nasconde in realtà l’appetito per le risorse naturali del Mar della Cina orientale, come anche la diversità di strategia politica delle due nazioni.
Due giorni fa il premier cinese Wen Jiabao ha avuto parole dure nei confronti del Giappone, giudicando non opportuni incontri bilaterali nel prossimo futuro e minacciando il rivale asiatico di azioni diplomatiche immediate, se il capitano della nave cinese non dovesse essere rilasciato al più presto. Al contrario il primo ministro giapponese Naoto Kan si è mostrato più cauto, definendo la crisi un “problema temporaneo”, con il chiaro intento di non dispiacere troppo il gigante cinese.
Perché i due vicini sono certo rivali, ma anche importanti partner commerciali, motivo per cui la ritorsione di Tokyo non è sembrata troppo difficile da mettere in atto: immediato stop ai piani di cooperazione energetica basati sul carbone, come anche all’aumento dei voli tra i due Paesi. Simbolicamente è stata perfino cancellata la visita di 1000 giovani nipponici all’Expo di Shanghai prevista per i prossimi giorni.
La controversia ha un’origine che potrebbe sembrare minima. Il 7 settembre un peschereccio che batte bandiera cinese sperona due navi di pattugliamento giapponese. Secondo la guardia costiera lo speronamento è volontario, un atto di provocazione. Le autorità nipponiche reagiscono così con la detenzione dell’equipaggio e del capitano in un primo momento, mentre in un secondo rilasciano i pescatori ma continuano a tenere sotto custodia il responsabile della flotta.
Lo scenario del misfatto sono otto disabitati atolli dall’esotico nome di Senkaku (o Diaoyu in cinese), situati tra le isole di Taiwan e la giapponese Okinawa. Singolarmente queste terre inospitali a sovranità nipponica fin dalla fine del 1800 sono al centro di una contesa a tre che coinvolge, oltre alla vicina Cina nazionalista, soprattutto la Repubblica Popolare.
Il perché è spiegato dalla possibilità di sfruttare le risorse naturali ancora ben custodite nel Mar della Cina sud-orientale. In un’area stimata sulle mappe della grandezza della stessa Taiwan, si nasconderebbe un ricco giacimento di gas, che potrebbe essere sfruttato da chi detiene la sovranità sulle isole. Senza contare che quei mari, già ricchissimi di pesce, potrebbero perfino regalare l’ultima sorpresa a cui tutti aspirano: il petrolio. Insomma, gli atolli che nessuno voleva si stanno trasformando in una vera e propria “isola del tesoro”. La vicenda ricorda, sia pur lontanamente, la contesa tra Gran Bretagna e Argentina sulla sovranità delle isole Falkland, nei cui mari si ipotizzano possano trovarsi giacimenti di oro nero.
In attesa che le acque – almeno quello diplomatiche – si tranquillizzino, Cina e Giappone si misurano con i nervi scoperti in questa inedita “guerra fredda” di settembre. L’inimicizia tra i due è storica, anche se quella recente data dai tempi dell’invasione giapponese della Cina durante la seconda guerra mondiale, e il severo atteggiamento delle autorità nipponiche ha sortito per ora il risultato di riportare alla luce, nel popolo cinese, l’odio contro Tokyo. L’agenzia di stampa cinese Xinhua riportava la sera del 21 un comunicato sulle dimostrazioni anti-giapponesi scoppiate proprio nel giorno del 79esimo anniversario dell’invasione.