Il New York Times, nelle pagine economiche, parla di “ondate di assunzioni” nelle banche private asiatiche per “intercettare il business in fuga dalla Repubblica Elvetica”
Addio monti, addio alle passeggiate rinfrancanti sul lungolago di Lugano, Ginevra o Zurigo. I super ricchi abbandonano la Svizzera. Troppo rumore, troppi CD finiti nelle mani sbagliate, troppi bancari annoiati, pronti a trafugare nomi e cognomi di correntisti a sei zeri in cambio di un pensionamento anticipato ai Caraibi. Meglio la discrezione asiatica, i conti blindati che riposano nelle banche di Singapore e Hong Kong. Sia chiaro, non è una novità: i soldi in Asia ci sono sempre andati. Ma adesso i numeri sono impressionanti. A riportarli è il New York Times che, nelle pagine economiche, parla di “ondate di assunzioni” nelle banche private asiatiche per “intercettare il business in fuga dalla Svizzera”. In realtà di vera e propria fuga non si tratta, perché molte delle banche che si stanno sviluppando nelle oasi fiscali dell’estremo oriente hanno un pedigree tutto elvetico. UBS, la più colpita dall’offensiva contro il segreto bancario, ha aperto un centro di formazione a Singapore, ma a farle compagnia ci sono anche istituti più piccoli, come Julius Baer.
UBS, che è la più grande banca svizzera, ha perso circa 200 miliardi di dollari di depositi negli ultimi due anni. Il braccio di ferro con le autorità americane, che nel 2009 sono riuscite a farsi consegnare 4.450 nomi di evasori con conti milionari, ha causato pesanti danni finanziari e di immagine. Ma in Asia UBS è rinata, riuscendo a recuperare più denaro di quanto ne avesse perso. Così almeno ha dichiarato Jürg Zeltner, responsabile del wealth management, in una presentazione agli investitori in agosto.
La banca non diffonde dati ufficiali, ma ha recentemente fatto sapere che sta per assumere 400 nuovi “consulenti per la clientela”, o private bankers, nella regione Asia-Pacifico. Oggi sono in tutto poco meno di 900. In più, a febbraio, UBS ha aumentato i bonus per i dipendenti di Singapore che portano nuovi clienti. La città-stato all’estremo sud della penisola malese ha un feeling particolare con la prima banca svizzera: nel pieno della crisi finanziaria, proprio il governo di Singapore l’ha aiutata a non fallire, entrando nel capitale con il suo fondo sovrano. Ora è uno dei maggiori azionisti, con circa il 6,5% del capitale. Ma anche il Credit Suisse, l’altra grande banca elvetica, non è da meno. Walter Berchtold, responsabile dell’area private banking, ha dichiarato che i depositi nei conti asiatici cresceranno di oltre il 20% all’anno nei prossimi anni: più del triplo rispetto alla crescita media che la banca ha previsto nelle altre regioni. Julius Baer, che ha sede a Zurigo, agli inizi di settembre ha addirittura riunito il consiglio di amministrazione della banca a Singapore, per la prima volta nella storia. “Lo chiamiamo il nostro secondo mercato domestico”, ha dichiarato Jan Vonder Muehll, portavoce di Baer, al New York Times. “Il nostro obiettivo è raddoppiare gli asset a Hong Kong e Singapore e portarli al 25% dei depositi totali della nostra banca. Lo stile e la professionalità svizzeri sono molto stimati in Asia”.
Mentre le banche svizzere esultano e tirano un sospiro di sollievo, le critiche non mancano. “Singapore è il posto dove gli svizzeri possono ora trovare il segreto bancario che hanno perso a casa e Hong Kong seguirà a ruota”, ha dichiarato Richard Murphy, uno dei fondatori di Tax Justice Network , una rete internazionale di ong ed economisti, con sede a Londra, che si batte per la giustizia fiscale. I critici puntano il dito sulla segretezza delle banche di Singapore, dove non ci sono tasse sul capital gain e su buona parte dei dividendi esteri e vige un sistema che permette di aprire conti correnti intestati a imprese schermo e fiduciarie. A Hong Kong la situazione è un po’ diversa: non esiste una vera e propria legge sul segreto bancario, ma è possibile creare società opache, che spesso servono come veicolo per l’evasione fiscale. In più non sono tassati il capital gain e gli interessi sui depositi, mentre le imprese sono sottoposte a imposizione fiscale solo per i redditi prodotti in loco.
Il risultato di queste agevolazioni è sotto gli occhi di tutti: mentre la Svizzera continua a rimanere la capitale della ricchezza non dichiarata, stimata a 2.000 miliardi di dollari (poco più del prodotto interno lordo italiano), Singapore e Hong Kong crescono a ritmi vertiginosi, grazie anche ai 520 miliardi di dollari usciti dalla Confederazioni negli ultimi due anni. A Singapore il totale degli asset depositati (non solo da Europa e Stati Uniti, ma anche dai paesi asiatici) avrebbe raggiunto quota 500 miliardi di dollari, mentre Hong Kong sarebbe arrivato a 200 miliardi. L’Internal Revenue Service (IRS), agenzia delle entrate statunitense, è già sulle tracce degli evasori. In primavera ha annunciato l’assunzione di 800 nuovi dipendenti per combattere l’evasione fiscale, con un focus proprio su Singapore e Hong Kong. Basteranno? E’ difficile dirlo. Anche perché, mentre si cerca di tappare le falle in Asia, la Svizzera torna ad arroccarsi sulle sue posizioni.
In un articolo pubblicato mercoledì dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt si parla di “scarsa collaborazione da parte delle autorità svizzere nella lotta all’evasione”. “Le promesse della Svizzera sono piene di buchi, come il formaggio che si produce nelle sue valli”, ha scritto Handelsblatt senza usare mezzi termini. Il quotidiano fa riferimento al nuovo regolamento per l’assistenza amministrativa in caso di reati fiscali, che sta per essere approvato. “Per ottenere assistenza dagli svizzeri nelle indagini sull’evasione bisogna sottostare a otto condizioni”, spiega Handelsblatt. Alcune, a parere del giornale tedesco, sarebbero così generiche da poter essere facilmente interpretate a favore del segreto bancario. Come la condizione di “completezza” delle richieste e la clausola che richiede che si indichi il periodo di tempo nel quale si sarebbe compiuta l’evasione. “Se sapessimo già tutte queste cose che senso avrebbe chiederle agli svizzeri?”, si chiede Thomas Eigenthaler, rappresentante dell’agenzia delle entrate tedesca.
Ma quello che brucia di più ai tedeschi è la clausola che prevede il rifiuto della collaborazione in caso di informazioni ottenute illegalmente. Nessuna speranza, quindi, per i CD comprati dal governo tedesco dalle talpe in colletto bianco delle banche svizzere. Migliaia di nomi su cui la Confederazione continuerà a tenere la bocca chiusa.