Per fortuna, c’è chi dice no. Se Stefano Rodotà, Marcello Vigli, Domenico Starnone, Corrado Mauceri, Antonia Sani, Maria Mantello e tanti altri ancora hanno deciso di sottoscriverlo, ci sarà un motivo.
L’appello di Retescuole fotografa la condizione di disagio nella quale la scuola italiana versa in questo momento. Non parlo dei tagli, delle esistenze liquidate dopo anni di impegno (precario) al servizio della scuola pubblica; non parlo dell’attentato al diritto allo studio, delle classi straripanti, della sicurezza che non c’è nel luogo che dovrebbe essere della tutela. O meglio, parlo di tutte queste cose insieme: del progetto di una “riforma” dalle mille, minacciose, sfaccettature, cui si accompagna (non casualmente) la più convinta insidia contro la libertà di insegnamento che sia stata messa in campo. Evocata, minacciata, sventolata da incaute dichiarazioni: dalla paranoica allusione, insistita, continua, ai professori “sessantottini”, “comunisti” – inaugurata anni fa da Berlusconi e ricalcata implacabilmente da Tremonti e Brunetta – alle demagogiche prese di posizione di Gelmini, che ha dichiarato più volte che chi vuole far politica deve andare in Parlamento e non stare a scuola.
“Fare politica” significa esercitare la critica, commentare, sottrarsi alla rassegnazione delle grandi e piccole violazioni che la scuola sta subendo. Vietata la partecipazione che un tempo – bel tempo! – era libertà ed oggi costituisce quasi un reato, certamente un demerito.
La riforma del sistema di reclutamento degli insegnanti – prevista e promessa da Gelmini – sarà una partita sulla quale occorrerà vigilare in maniera intransigente. Perché vogliono fedelissimi, inquadrati, acritici, monolitici sostenitori di quel Pensiero Unico che garantisce il rassicurante capolavoro di quella tragica idea di società che vorrebbero concretizzare e che – pezzo dopo pezzo, arretramento della democrazia dopo arretramento della democrazia – stanno mettendo a punto. Ci vogliono persino dimentichi delle più elementari garanzie di pluralismo, sonnolenti e tolleranti complici delle mille piccole e grandi deviazioni dalle pratiche democratiche.
Per fortuna, c’è chi dice no, appunto. Leggete le parole della petizione. Sono belle, sono vere. Quanto è accaduto a Francesco Mele è la punta dell’iceberg della minacciosa tessitura che gli strateghi della mortificazione programmatica del pensiero divergente stanno tentando. Sono gli stessi che millantano l’inserimento della “rivoluzionaria” materia “Cittadinanza e Costituzione”, ma poi vorrebbero che le nostre scuole producessero unicamente consumatori acritici, risentendosi contro chi osa esigere il rispetto delle procedure democratiche e delle prerogative che (ancora) gli organi collegiali hanno secondo la nostra legge. Altro che cittadinanza democratica: vietato parlare, vietato esprimere, vietato – persino – pretendere il rispetto delle regole.
Il contrasto tra l’idea asfittica del “fare politica” di chi non ha cultura politica e la dimensione – tutta squisitamente politica – del nostro lavoro di docenti l’ho trovato, in un breve, recente soggiorno a Ferrara, in queste parole: “Io non ho mai ritenuto che esistesse incompatibilità tra la mia qualità di socialista militante e il mio ufficio di maestra, che ho sempre assolto scrupolosamente, senza meritarmi mai nessun richiamo da parte dell’autorità scolastica comunale”. Sono parole di Alda Costa, immortalata in “Gli ultimi anni di Clelia Trotti” nelle Cinque storie ferraresi di Bassani. Era il 17 marzo del ’26 e Alda rispondeva ad incalzanti domande nell’ufficio di gabinetto della questura. Il museo della Resistenza di Ferrara custodisce le memorie sue e di altre come lei.
Mi guardo bene dallo scomodare tragedie della nostra storia nazionale. Ma certamente Gelmini e il suo luogotenente Limina farebbero bene a frenare i propri entusiasmi autoritari e liberticidi. Noi non siamo disponibili a far finta di niente.