I giudici volevano cacciare i colleghi che cenarono con Berlusconi. Dopo i tentatvi di influenzare la decisione sullo scudo, si avvicina la decisione della Corte costituzionale
“P3” e questione morale nella magistratura: in queste ore l’Anm ne discuterà a Milano. E non è un caso. Dinanzi al presidente Luca Palamara, e al segretario nazionale Giuseppe Cascini, l’associazione parlerà, a porte chiuse, anche di Alfonso Marra. Il presidente della Corte d’Appello di Milano, fortemente voluto, nelle fasi della nomina, dal sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, da Flavio Carboni e Pasquale Lombardi, indagati nell’inchiesta romana sull’associazione occulta che premeva anche sulla Corte Costituzionale, per la conferma del lodo Alfano.
Proprio sullo scudo salva Berlusconi e Consulta, il Fatto Quotidiano è in grado di rivelare nuovi retroscena: una parte dei giudici della Corte costituzionale avrebbe voluto le dimissioni dei colleghi Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, che a maggio dell’anno scorso, a pochi mesi dalla sentenza sul lodo Alfano, cenarono con Berlusconi, premier e parte in causa, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, il sottosegretario Gianni Letta e il presidente della Commissione affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini.
La procedura per chiedere le loro dimissioni, però, non è mai stata avviata. Il motivo: timore di finire in minoranza. Non c’è stata neppure una discussione ufficiale. Ma, secondo quanto ci risulta, il problema si è posto. A voce. Alcuni giudici ne hanno discusso tra loro. E alcune fonti spiegano: tutto è andato in fumo per non indebolire la Corte.
Come si sa, il lodo è stato bocciato il 7 ottobre dell’anno scorso e la votazione è finita 9 a 6 . Il Fatto, lo vedremo in seguito, è in grado di ricostruire quel voto che stava tanto a cuore alla P3. L’organizzazione segreta costituita da faccendieri e – secondo la Procura di Roma – da uomini di punta del Pdl, tutti indagati: il coordinatore del partito, Denis Verdini, il senatore Marcello Dell’Utri e Caliendo. Che hanno provato a pilotare la Corte. A un certo punto pensavano di avere il controllo della maggioranza, sia pure risicata, però non ce l’hanno fatta. Il libero convincimento dei giudici ha prevalso.
Ma andiamo in ordine cronologico. Perché da quella cena di maggio in avanti, alla luce dell’indagine in corso, ci sono dei tasselli che sembrano incastrarsi perfettamente. Il primo scandalo scoppia a luglio dell’anno scorso, quando il giornalista Peter Gomez rivela il banchetto di due mesi prima. Nel pieno della polemica, il presidente Francesco Amirante dichiara: “La Corte costituzionale nella sua collegialità deciderà come ha sempre fatto, in serenità e obiettività, le questioni sottoposte al suo giudizio”.
Prima di quel comunicato, dentro al palazzo della Consulta, racconta un giudice, “sono giorni di grande amarezza per la compromissione del prestigio dell’istituzione. Quella cena è inaccettabile non perché ci fossero tra gli invitati dei politici, ma perché uno di loro era il soggetto di una nostra imminente decisione. È stata una ferita per molti di noi, a cominciare dal presidente Amirante”. Poi fa una rivelazione sul mancato avvio dell’iter per le dimissioni dei due colleghi, prevista nel caso di ‘gravi mancanze nell’esercizio delle loro funzioni’:
“Alcuni di noi avremmo voluto, ma ci siamo resi conto che non ci sarebbero stati i 10 voti necessari, cioè i due terzi, obbligatori, dei componenti”. I giudici hanno così rinunciato alla richiesta, altrimenti avrebbero ottenuto l’effetto contrario: la difesa di Mazzella e Napolitano da parte della Corte. Quindi la maggioranza dei giudici era dalla parte dei colleghi a braccetto con Berlusconi? “Qualcuno sì – ammette la fonte – altri invece hanno desistito perché convinti di poter dimostrare la nostra indipendenza”. La Corte l’anno scorso boccia la legge salva premier dopo oltre 8 ore di camera di consiglio. Segreta, naturalmente. Pertanto – senza entrare nel dettaglio della votazione e tanto meno dei nomi dei giudici – possiamo raccontare che fra i sei pro lodo Alfano, un solo giudice è di nomina presidenziale, mentre altri due provengono dalla magistratura e appartengono a organismi diversi. L’eventuale processo accerterà se tra quei sei giudici costituzionali ve ne siano contigui alla P3. Ma sulle manovre tentate, e fallite, dagli uomini con il “ grembiulino”, le intercettazioni non lasciano dubbi.
Da oltre due mesi sono in carcere il faccendiere Flavio Carboni, l’ imprenditore Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi, geometra e giudice tributarista. “L’ambasciatore” dei nuovi piduisti al Csm e, a quanto pare, alla Consulta. Secondo la procura e il Riesame di Roma (sulla base di intercettazioni), Lombardi ha avvicinato diversi giudici costituzionali che avrebbero garantito il voto a favore di Berlusconi. “Cesare”, per gli amici della P3. Scrive il presidente del Tribunale del Riesame, Guglielmo Muntoni, quando, nel luglio scorso, respinge le richieste di scarcerazione: “Lombardi era riuscito a ottenere l’assicurazione del voto, nel senso voluto dai sodali, di sette dei 15 giudici”. Andò male, “ma resta il fatto che tale ingerenza ci fu, che essa venne esercitata su almeno 6 dei giudici costituzionali (proprio il numero dei giudici che hanno votato a favore del lodo, ndr) che anticiparono a un soggetto come il Lombardi la loro decisione”.
Queste trame le conferma al procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, uno degli arrestati, Martino. Racconta che Lombardi, di fronte a lui, a Carboni, Verdini, Dell’Utri, Caliendo, Antonio Martone (ex magistrato) e Arcibaldo Miller (capo degli ispettori al ministero della Giustizia) “indicò con precisione i nomi dei giudici che disse di aver contattato, in qualche modo per conoscere il loro orientamento e indicò, che a suo avviso, vi poteva essere una maggioranza a favore della decisione gradita a Berlusconi; in particolare, di un giudice donna di cui non ricordo il nome (l’unica è Maria Rita Saulle, nominata dal presidente Ciampi, ndr) che, pur essendo a quanto mi sembrava di capire di sinistra, avrebbe votato in favore della costituzionalità della legge”. Contattata al telefono, la professoressa Saulle ha negato di aver mai avuto a che fare con Lombardi: “Se qualcuno le dice che ho incontrato Obama, lo scrive?”. Di entrare nel merito del lodo Alfano, neanche a parlarne: “Non dirò mai cosa penso. Finiamo qui questa conversazione, altrimenti riattacco il telefono”.
I tentativi di influire sulla Corte vengono compiuti nonostante lo scandalo scoppiato appena due mesi prima, per la cena a casa di Mazzella. Il giudice, quando la notizia diventa pubblica, scrive una lettera aperta “all’amico Silvio”, che nel suo secondo governo lo aveva designato ministro della funzione pubblica, e insinua: “Molti miei attuali ed emeriti colleghi della Corte Costituzionale hanno sempre ricevuto nelle loro case, come è giusto che sia, alte personalità dello Stato e potrei fartene un elenco chilometrico”. Effettivamente proprio dalla Corte costituzionale rimbalzano voci, non confermate, di un’altra cena, alla vigilia del lodo Alfano, con due membri della Corte e politici molti vicini al Cavaliere. Dal recente passato al presente. La Consulta è di nuovo al centro dei pensieri di Berlusconi, premier e imputato. Teme la sentenza, prevista per il 14 dicembre, sul legittimo impedimento ad hoc che ha sospeso i suoi processi milanesi. Probabilmente, per bloccarla, crisi di maggioranza permettendo, verrà presentata una modifica della norma in Commissione giustizia della Camera. Se così fosse, per prassi istituzionale, i giudici rinvierebbero la seduta, in attesa delle decisioni del Parlamento. Nessuno slittamento, invece, perché materia diversa, se ci fosse un’accelerazione sul lodo costituzionale. Alfano recentemente ha anche espresso “un auspicio”: che la Corte confermi la costituzionalità del legittimo impedimento. “Noi, anche in questo caso, dice un giudice, decideremo liberamente”. Poi, anche se gli costa, fa una riflessione sulla solitudine che sente lui come altri colleghi: “Una parte degli italiani, purtroppo una minoranza, ci considera un fortino della legalità, ma a furia di essere assediato, il fortino rischia di essere abbattuto”.
di Antonella Mascali e Antonio Massari
da Il Fatto quotidiano del 28 settembre 2010