Un falso creato ad hoc. Questo sarebbero le copie di alcune delle lettere di Vito Ciancimino, fornite dal figlio Massimo alla procura di Palermo. Lo sostiene il generale Mario Mori, finito sotto processo insieme al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Si tratta del dibattimento nato dall’inchiesta sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995.
In una deposizione spontanea (cioè senza dover rispondere alle domande) Mori ha illustrato la sua tesi utilizzando su una presentazione Power Point (vedi le slide sul corriere.it). Ciancimino “può modificare ad arte i documenti attribuiti al padre Vito”, ha affermato analizzando l’ormai celebre lettera a Silvio Berlusconi. Secondo l’ex capo del Sisde nella missiva ci sarebbero “incoerenze ortografiche” e “evidenti manipolazioni”. “Sopra la prima riga il documento base è stato tagliato – ha spiegato Mori – il tutto però senza riuscire a eliminare completamente alcune righe”. Insomma, attraverso l’informatica e programmi come Photoshop Massimo Ciancimino avrebbe aggiunto ai manoscritti del padre pezzi ulteriori, in questo modo creando un documento diverso. Stesso “lavoro” il figlio del sindaco l’avrebbe fatto su alcuni pizzini scritti dal don Vito al boss Provenzano.
L’accusa però spiega: “Stando alla consulenza realizzata dalla Scientifica, non ci risultano manipolazioni di alcun tipo – ha detto il pm Nino Di Matteo parlando con i giornalisti fuori dall’aula – Nel momento in cui qualcuno dimostrerà la manipolazione dei documenti sarà un momento processuale molto rilevante. Ma al momento sono solo asserzioni teoriche dell’imputato”. Massimo Cincimino, sentito dal ilfattoquotidiano.it, invece considera: “Quella lettera non l’ho prodotta io. È stata trovata dalla procura durante la prima inchiesta a mio carico. Dire che è stata manipolata è come dire che l’hanno manipolata gli inquirenti. Ho già detto ai magistrati che mio padre possedeva una fotocopiatrice e fotocopiava più o meno tutto. Mori è un imputato e ha il diritto di difendersi, ma si deve ricordare che io ho consegnato molti documenti di mio padre manoscritti in originale. Spesso a matita e con sottolineature sui giornali dell’epoca. Le perizie sulle carte e sugli inchiostri non mi hanno mai smentito”.
All’inizio udienza il procuratore ha depositato la copia di un’altra lettera che sarebbe stata scritta dall’ex sindaco di Palermo all’ex governatore della Banca di Italia Antonio Fazio, fornita da Massimo. Nella missiva si accenna al fatto che Borsellino era al corrente della trattativa tra mafia e Stato condotta, a dire di don Vito, da Mori, allora in servizio al Ros: “dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzato dal colonnello Mori per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia e interrotta dall’omicidio di Borsellino, sicuramente oppositore fermo di questo accordo”, c’è scritto. Sarebbe un elemento a sostegno della tesi del processo: il generale sarebbe il protagonista del “dialogo” che settori dello Stato avrebbero intrapreso con Totò Riina, grazie all’intermediazione di Ciancimino, per fermare la stagione delle stragi mafiose del 1992. Il pm Di Matteo ha chiesto una nuova audizione di Massimo Ciancimino, già sentito lo scorso inverno. “L’esame di Ciancimino – ha spiegato Di Matteo – verterà solo sul profilo della genesi della produzione documentale”. Sempre il pm ha chiesto di sentire in aula il direttore della polizia scientifica Piero Angeloni e sette suoi collaboratori per parlare dell’esame “merceologico” fatto su alcuni documenti consegnati da Massimo Ciancimino ai magistrati.
E un altro documento scritto a macchina con note a mano è stato messo agli atti del processo. Si chiama “Appunti per incontro. A futura memoria” ed è un testo, conservato a casa Ciancimino, consegnato dalla vedova Epifania Silvia Scardino al figlio Massimo e poi data ai pm. Nelle note l’ex sindaco fa riferimento agli omicidi “Lima, Falcone, Borsellino, Salvo“. “La lista e’ lunga. – ha scritto – So che se non interveniamo come ho suggerito non si fermeranno. Mori mi dice di essere stato autorizzato ad andare avanti per la mia strada”. “Ho aderito alla richiesta fatta dal colonnello Mori lo scorso giugno. Ho chiesto di poter incontrare in privato Violante“. Lo scritto riscontrerebbe quanto detto da Ciancimino ai pm anche sulla strage di via D’Amelio: “Anche Borsellino aveva intuito il terribile disegno (di destabilizzazione, ndr), forse ancora prima del suo collega Falcone aveva intravisto scenari inquietanti. Anche lui come Di Pietro era messo in conto”. Ma il pm di Mani pulite si salvò: “Perché Di Pietro è stato avvisato? A chi serve che vada avanti?”. L’annotazione di pugno alla fine del dattiloscritto darebbe l’ennesima prova dell’autenticità delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino: “In questa logica è stato assassinato Falcone e lui lo ha capito tanto è che quando uccisero Lima ha detto: ecco ora tocca a me”.
Tra i testimoni di oggi c’era anche Liliana Ferraro, ex direttore degli affari penali. “Il Ros dei carabinieri cercò un contatto con Vito Ciancimino nei giorni successivi alla strage di Capaci, dove venne ucciso il giudice Giovanni Falcone con la moglie e tre agenti della scorta”, ha raccontato confermando anche le informazioni sul suo incontro con il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. De Donno le disse che poteva “agganciare” Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo. “Voleva che lo dicessi al ministro Martelli per avere conforto politico. Io dissi che era il caso di parlarne con Borsellino. Martelli mi disse la stessa cosa: ma che vogliono, parlino con Paolo”. Ferraro ha poi parlato del suo incontro col giudice: ”Il 28 giugno del ’92 incontrai Borsellino all’aeroporto di Bari e gli dissi dell’intenzione del Ros di contattare Vito Ciancimino per indurlo a collaborare. Non ebbe reazioni particolari, mi disse solo: ‘ora me ne occupo io”. L’ex direttore degli affari penale conferma la versione fornita dall’ex Guardasigilli Claudio Martelli: gli incontri tra il Ros e Ciancimino avvennero nel giugno del ’92, tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Prenderebbe corpo dunque la pista secondo la quale il giudice venne ucciso proprio per evitare che potesse opporsi alla decisione dello Stato di scendere a patti con la mafia.