“Hai mai visto un annegato? E un suicida? E uno morto da un mese?”. Il primo giorno di cronaca nera ti accolgono così. Davvero. E’ successo anche a me. Ricordo un collega – un uomo di rara sensibilità, come ho scoperto dopo – che mi diede il benvenuto con una raffica di domande. La prima tentazione fu di tornare allo studio di avvocato che avevo lasciato.
E dire che ero arrivato al giornale sognando di occuparmi delle grandi questioni internazionali. Mi avevano mandato in cronaca di Roma e già l’avevo presa come un bidone. Che errore! Non c’è niente di più vivo e vitale della cronaca cittadina di un giornale. Si scopre il mondo a guardare con il microscopio una città. Soprattutto se è una metropoli come Roma.
Quel primo giorno rimasi a lungo a guardare in silenzio lo schermo del computer. Pensavo alle macchiette che avevo visto tante volte nei film: il cronista di nera è sempre malconcio, con i vestiti pieni di macchie e la sbornia facile. Insomma, un cinico. Uno, appunto, che ti interroga compiaciuto sulle tue conoscenze da obitorio per vedere la faccia che fai. Se sbianchi allora è meglio che cambi lavoro.
Niente di più sbagliato. L’ho capito con gli anni, dopo essermi fatto anch’io una certa cultura di ospedali e obitori. No, non è cinismo, non è desiderio morboso di speculare sui dettagli macabri. Spesso è tutto il contrario. Anche se sono gli stessi giornalisti i primi a non rendersene conto. A non volerlo ammettere.
Me ne sono reso conto all’improvviso, come una sberla in faccia, un pomeriggio di luglio del 1996. Suona il telefono alla cronaca di Roma del Messaggero. E’ il collega Marco De Risi dalla questura che mi avverte: “Rapina con sparatoria al Portuense”. Salgo in macchina con il fotografo Ettore D’Aco e partiamo senza pensarci un attimo. Ettore è meglio di un Tom Tom, quarant’anni di cronaca di Roma, conosce ogni strada, ogni scorciatoia. Voliamo, incrociamo una volante che sbaglia strada, arriviamo prima di tutti in una piazza lunga, informe, che si apre tra i condomini della periferia.
In mezzo c’è un capannello. Parlano, indicano un punto sull’asfalto. Mi faccio largo, arrivo al centro della piazza. Mi trovo davanti una macchia scura. Osservo meglio, vedo una giacca, un paio di pantaloni. No, è un ragazzo. Immobile, ma respira.
Mi volto, guardo la gente intorno. Hanno tutti un’espressione attonita, non vedo me stesso, ma credo di averla anch’io, me la sento addosso. Perché tutti, non so come, abbiamo capito: quel ragazzo sta morendo. Lì, davanti ai nostri occhi.
Stiamo in silenzio a osservarlo, ma non è curiosità morbosa, ve lo assicuro, è sgomento. Sentiamo tutti – il passante, il verduraio, il giornalaio, il cronista – che davanti a noi sta avvenendo qualcosa di enorme. Troppo grande per noi. Una vita sta finendo. Si sta aprendo uno squarcio – almeno io la vidi così – tra quella piazza e un altro luogo… il nulla, un’altra vita, il mistero, comunque. E noi stiamo lì, come sul limitare di una soglia, incapaci di allontanarci, anche se sentiamo la paura di essere trascinati via.
Guardiamo, non so perché ma indugio sugli occhi semichiusi del ragazzo, che istante dopo istante perdono la luce, diventano opachi. Chissà che cosa sente in questo momento. Vorremmo tutti avvicinarci, toccare quel ragazzo che sta diventando soltanto un corpo, non so perché, forse per fargli sentire la nostra presenza, per accompagnarlo in qualche modo. Un uomo, un tipo semplice con le mani grandi e forti come tenaglie si avvicina e lo accarezza. Me lo ricorderò sempre. Poi si volta per non farsi vedere dal ragazzo e si mette a piangere.
Era un rom quel ragazzo. Aveva cercato di rapinare una vetrina, era disarmato, ma aveva sfondato la vetrina con una mazza. Il gioielliere era uscito e gli aveva sparato addosso mentre scappava. Un colpo gli era entrato sotto l’ascella e lo aveva raggiunto dritto al cuore.
Poi ecco arrivare un’ambulanza. Un uomo con la giacca arancione sente il polso del ragazzo, gli stende un lenzuolo addosso, sul volto soprattutto (la faccia, gli occhi, lì si concentra la nostra vita), un po’ per proteggere il ragazzo dai nostri sguardi, un po’ per difendere noi dallo smarrimento.
E’ morto. In quell’istante, vi giuro, tutti guardiamo verso l’alto e proviamo a respirare cercando l’aria. Ma il torace sembra di marmo. Poi mi vengono, ci vengono, mille pensieri. Penso alla madre di quel ragazzo che chissà dov’è e non sa che lui è morto. Penso a mia sorella che ha la stessa età.
Lo squarcio si richiude. Le sirene della polizia rompono il silenzio, risvegliano i sensi. Ci riportano alla vita, al presente. La città rimargina rapidamente la ferita.
Così un’ora dopo mi ritrovo in redazione: “Devi scrivere 45 righe”, mi dicono. Sono 2.700 battute per raccontare che cosa è successo. Devo ricostruire la rapina, scrivere chi era il rapinatore, riferire che il gioielliere è stato arrestato per omicidio. Già finito. Di quello che vorrei scrivere davvero non c’è traccia. Forse è giusto che sia così, il cronista non è un filosofo. E però gli capita di assistere a eventi tanto più grandi di lui e deve tenersi dentro quel peso.
Eppure vorrebbe parlarne con i lettori, vorrebbe sfogarsi. Ma le domande che gli nascono dentro sono troppo grandi. Come fai a parlare della morte in 45 righe, come fai a spiegare lo smarrimento? Non puoi descrivere quello che hai sentito quando ti sei ritrovato svuotato come un sacco all’angolo della piazza e dentro di te sentivi quella domanda, la più grande di tutte: che cosa è successo davvero? Dov’è adesso quel ragazzo?
Sì, vorresti scrivere anche di Dio, quello che hai conosciuto da bambino, di cui hai sentito parlare dai tuoi genitori con parole rassicuranti, tiepide nelle notti d’inverno.
Hai paura che quel proiettile sia arrivato dentro di te e abbia ucciso il tuo Dio. Già, come ha potuto permettere questo?
La stessa domanda che mi è risuonata dentro tante volte: a Londra, davanti all’autobus squarciato da una bomba. O più vicino, in un cortile sulla Nomentana, di fronte all’urlo della madre che correva nello spiazzo sotto casa e osservava la macchia di sangue lasciata da suo figlio caduto dalla finestra. A cinque anni. Ancora – cerco nella memoria per non dimenticare nessuno – quella ragazza che raccoglieva sull’asfalto la scarpa della madre appena travolta da un autobus.
Se esistesse qualcuno, se davvero ci amasse infinitamente, come potrebbe permettere tutto questo dolore?
No, il cronista non può parlare del senso della vita. Allora prova in qualche modo a disseminare l’articolo di dettagli, come mollica di pane, sperando che il lettore lo segua e arrivi ai suoi pensieri. Proprio come quella scarpa, abbandonata sull’asfalto. Guardandola ho pensato a mia madre, a tutte le mattine che l’ho vista uscire di casa, infilarsi le scarpe. Proprio come aveva fatto quella donna l’ultima mattina della sua vita.
Alla fine il cronista resta con quel peso grande. Allora fa il cinico, cerca di choccarti parlando di cadaveri, di viscere sparse nel raggio di un chilometro. Ma in fondo vuole sfuggire alle sue paure. A lasciarlo sgomento è qualcosa che non si vede, che non ha il colore rosso del sangue: sentire la morte mentre arriva accanto a te, in una piazza, in una corsia d’ospedale. Vedere il dolore sui volti di chi resta. E restare senza parole.