Le vittime da sangue infetto chiedono alla politica di tutelare i loro diritti e mantenere fede agli impegni presi. Solo questo. Lo chiedono perché hanno ingiustamente sofferto e vogliono giustizia. Lo chiedono invocando la legge ma anche quel senso dell’umanità che lo Stato dovrebbe avere a cuore. Sono le vittime del sangue infetto, una ‘strage’ di Stato verificatasi negli anni ’80 e ’90, quando oltre 70mila persone hanno contratto l’epatite B e C, 2mila l’Aids e, ad oggi, 400 sono morte. Alla base di questa mattanza, un traffico di plasma internazionale nocivo che, venduto al ribasso nel nostro Paese, ha contagiato migliaia di pazienti per l’assenza di controllo da parte del Ministero della Salute.
I nomi e i sostantivi sono noti: Poggiolini, De Lorenzo, tangentopoli e anche odore di P2. Secondo le indagini, i dirigenti di alcune case farmaceutiche erano a conoscenza della presenza di questo plasma alterato, impiegato principalmente per la produzione di farmaci salvavita per emofiliaci e talassemici, ma scelsero di tacere esponendo al contagio e alla morte migliaia di persone. Il trionfo del business ad ogni costo e del guadagno ad ogni prezzo. Anche umano. Seguono battaglie interminabili nei tribunali, processi spostati e capi d’imputazione cambiati. Doppiamente vittime, doppiamente determinati però ad ottenere giustizia. Perché se la salute e la vita non possono essere restituite, il risarcimento e l’accertamento delle responsabilità sono comunque un’esigenza incontestabile che aiuta ad andare avanti. Anche se è passato molto, troppo tempo. Anche se gli imputati non vedranno il carcere per via dell’età. Anche se parte delle vittime non ci saranno più.
L’ultimo capitolo giudiziario della vicenda risale al 2008, con il nuovo rinvio a giudizio per epidemia colposa, oggi in attesa della pronuncia del tribunale di Napoli. Ed è incredibile che dopo circa vent’anni ancora non si sia arrivati a ristabilire una pur minima forma di giustizia. Come è incredibile che sulla vita compressa e offesa di queste persone penda la spada di Damocle della discriminazione e della prescrizione, che rischiano di mortificare ulteriormente esistenze che già troppo hanno pagato. Qualcosa di inaccettabile tanto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha chiamato in giudizio più volte l’Italia (nel 2000 e nel 2009) per come ha trattato i danneggiati da sangue infetto, per aver discriminato alcuni malati nel risarcimento e per la durata (eccessiva) dei processi. Oggi queste vittime protestano davanti a Montecitorio contro questo comportamento disumano: contro i risarcimenti “discriminatori” previsti dalla transazione in corso col Ministero della Salute e contro il rischio che incomba, su tutta la vicenda, la prescrizione. Come spiegano esponenti delle associazioni che sostengono le vittime del sangue infetto, il governo sta attuando infatti una discriminazione nel risarcimento tra le categorie di vittime: per lo stesso danno fisico, per esempio, propone ad un emofilico 400 mila euro e ad un emotrasfuso 68 mila euro. E ancora si attende un decreto legge, pur promesso e doveroso, che eviti la prescrizione. La copertura finanziaria esiste ed è stata stabilita dalla legge 244 del 2007, con tanto di impegno ad usare i fondi da parte del ministero a maggio 2010, mentre sulla prescrizione non c’è niente da dire, salvo invocare dal governo una minima decenza di Stato.