La sicurezza resta comunque al primo posto. Ma i metodi di controllo adoperati sono specifici e ben lontanti dal concetto di censura che c'è oggi in Italia
Allo scoccare di un’aggressione imprevista e mediatica, da Massimo Tartaglia fino all’attentato a Maurizio Belpietro, il ministro Roberto Maroni punta il dito contro Internet. Per la nostra maggioranza la Rete è spesso considerata il germe delle violenze a cui è necessario porre rimedio con proposte di filtri e promesse di censura. Ma negli altri paesi, seppur il controllo online sia un mezzo imprescindibile per garantire la sicurezza dei cittadini, dalla politica proviene anche la volontà di garantire la libertà del mezzo.
Negli Stati Uniti, ad esempio, Barack Obama sta pensando a un progetto di legge che renda più agevole le intercettazioni sul web, il mezzo che oggi terroristi e criminali preferiscono alle compagnie telefoniche. Gli Internet provider quindi dovranno implementare la tecnologia per fornire alle autorità federali i dati raccolti, dalle email criptate alle chiamate col Blackberry, passando da Facebook, Twitter e Skype. Questo per agevolare le intercettazioni, non per minacciare la censura e, come ha assicurato Valerie E. Caproni dell’FBI, si tratta di “un ampliamento della nostra capacità di fare intercettazioni, non certo della possibilità di aumentare la nostra autorità e il nostro potere in questo delicato settore”.
Un approccio di controllo diretto e mirato quello degli Usa, ma lontano dal concetto di censura: infatti, come aveva notato anche Pierferdinando Casini lo scorso anno, “Obama riceve intimidazioni continue su Internet, ma a nessuno viene in mente di censurare la Rete”. Così come gli Stati Uniti, anche l’Europa vigila. Secondo il Transparency Report la soglia di attenzione dei governi del vecchio continente è molto alta. Richiedono l’identificazione degli utenti e la rimozione dei contenuti, dai risultati del motore di ricerca fino a YouTube. Questa piattaforma raccoglie soltanto quanto indirizzato a Google e ai suoi prodotti e i dati, pertanto, non includono le richieste inoltrate ai social network, ma sono indicative per capire quali siano gli stati più scrupolosi. Da gennaio a giugno 2010, ad esempio, l’Inghilterra è stato il paese con il maggior numero di informazioni richieste sugli utenti seguita da Francia e Germania.
Per quanto riguarda invece le domande di contenuti da rimuovere, troviamo in testa Berlino con il doppio di segnalazioni rispetto all’Italia. Nella Svezia del Partito pirata, invece, che si batte per la libera circolazione dei dati e la condivisione online, ne sono state inoltrate meno di dieci, come nella vicina Norvegia. Ciò che preoccupa per l’Italia non sono – per il momento – i dati del Transparency report, ma le invettive dei nostri parlamentari che negli ultimi anni, da ddl e proposte di legge, auspicano come ha fatto Maroni “l’oscuramento dei siti che diffondono messaggi di vera e propria istigazione a delinquere”.
Il controllo da parte dei paesi europei viene comunque effettuato e grazie alle norme vigenti e al lavoro della polizia postale, è possibile prevenire e punire i reati connessi al web.
Ma la nostra politica, che non conosce l’environment virtuale, preferisce pensare di tutelare i suoi cittadini ventilando promesse di censura, senza puntare a un ponderato aumento del controllo tramite la tecnologia. E questo scenario non risolve nemmeno sul piano demagogico il problema sicurezza.