Oxford, Cambridge, St Andrews. Università prestigiose, forse un po’ troppo d’élite, ma sicuramente capaci di mantenere standard di eccellenza nella ricerca e di attrarre studenti da tutto il mondo. Ma la situazione potrebbe cambiare, se i piani di tagli alla spesa pubblica previsti dal ministro dell’Economia George Osborne andranno avanti senza modifiche. E così anche la Gran Bretagna si avvia ad entrare nel tunnel di quella che si potrebbe chiamare “sindrome Gemini”: ricercatori mal pagati e fuga di cervelli.
L’inchiesta del quotidiano britannico The Guardian, pubblicata il primo ottobre, parla chiaro: i tagli alla spesa, previsti nel prossimo quinquennio, sono tra il 20 e il 25% dei fondi destinati alla ricerca. Il Medical Research Council, ad esempio, sarà probabilmente costretto a tagliare una parte dei fondi destinati alla ricerca sul cancro, per una cifra che si aggira intorno ai 105 milioni di sterline. La rivista Research Fortnight ha anticipato che i tagli coinvolgeranno l’Università di New Castle per 4 milioni di sterline e quella di Liverpool per 3,5, mentre altre strutture, come la Metropolitan di Londra o l’Ateneo di Bournemouth, potrebbero chiudere definitivamente.
Rischiano solo le università considerate non di eccellenza? Pare proprio di no. Meno soldi per la ricerca significa meno strutture per gli scienziati che lavorano. E perdita di competitività in ambito internazionale.
Brian Foster è uno dei maggiori fisici delle particelle nel Regno Unito. Ora è tentato di lasciare Oxford, perché ha ricevuto un’allettante offerta da Amburgo, che ha fatto sapere di poter mettere a sua disposizione più di 4 milioni di euro da spendere in cinque anni. Proprio al Guardian spiega: “Vengono nel Regno Unito sempre meno ricercatori, semplicemente perché molte posizioni vengono tagliate. Il mio dipartimento di fisica ad Oxford ha perso metà dei ricercatori post-doc e lo staff di supporto che aveva quando sono arrivato sette anni fa”. Uomo di scienza, certo, il professore, ma conclude il suo intervento con un chiaro monito politico: “I tagli alla scienza potrebbero essere più seri oggi che negli anni della Thatcher”.
Sarcastico un altro ricercatore, il 34enne Carlos Gias, che conduce importanti ricerche in campo oftalmologico presso lo University College di Londra. Lamentando tempi lunghi per ottenere dalle istituzioni un gruppo di ricerca autonomo e gli strumenti necessari a lavorare bene, “mentre oltreoceano o in Cina aumentano i fondi ed è tutto più facile”, conclude amaramente che per lui sarebbe meglio passare dalla medicina alla finanza, dato che in tempi di crisi “i politici britannici hanno deciso di salvare le banche, non le università”. Infatti, mentre il governo britannico risparmia sul sapere, non diversamente da quanto fa il nostro, Stati Uniti, Giappone, Francia e Germania hanno deciso di investire sempre di più nella ricerca.
E dire che a Londra un grido d’allarme era stato lanciato da John Krebs, parlamentare indipendente, che presiede la Commissione per la Scienza e la Tecnologia alla Camera dei Lord. Il primo ad essersi rivolto al nuovo governo conservatore pronunciando la fase fatidica: i pesanti tagli all’università rischiano di provocare il fenomeno del brain drain.
Sembrerà anche più carino con la sua allitterazione, ma nella lingua di Shakespeare l’espressione non significa altro che “fuga di cervelli”. In attesa di sapere se davvero la situazione sta diventano drammatica come alcuni paventano, diamo il benvenuto agli Inglesi nel “tunnel Gemini”. Con l’augurio, da parte di tutti i ricercatori italiani – compresi i tanti che lavorano oltremanica -, che in Gran Bretagna si abbia la forza di fare quello in cui l’Italia non riesce: uscirne prima che sia troppo tardi.