Si sta parlando di 18 anni fa, quando per necessità di intimità con uno dei miei figli decisi un improvviso viaggio con lui. Telefonai all’amica Gemma che si era imbarcata in una storia complessa e faticosa. Aveva venduto tutti i suoi lombardi averi per trasferirsi a Nairobi nel tentativo di costituire cooperative atte alla pesca sul Lago Vittoria. Aveva insistito sul mio andare lì per suggerire a lei e ai suoi collaboratori idee intorno al loro pescato giornaliero. Ma questa è un’altra storia.
Arrivammo in Kenia con tutta la nostra ingenuità, certi di stare lontani dai villaggi turistici e da ciò che rappresentavano. Nella speranza di conoscere Padre Zanotelli e il suo agire in quella realtà. Non fu possibile. Gemma ci prese all’aeroporto e ci portò rapidamente, molto rapidamente, nella sua casa. La notte sarebbe arrivata da lì a poco. Ci spiegò che non era il caso di farsi trovare in strada. Non capii, non volevo capire. L’idea di essere in Africa non mi faceva capire l’ovvio. Dormimmo in una stanza con un pulsante rosso ben visibile vicino ai nostri letti. Avremmo dovuto e potuto premerlo per qualsiasi allarme; evenienza, ci fu detto, assolutamente improbabile. Ben otto uomini circondavano la casa. Due armati di fucile, sei di archi e frecce. Archi e frecce, fucili? Guardai mio figlio per tutta la notte dandomi dell’imbecille. Eravamo partiti per prendere distanza dall’ignoranza altrui sulla nostra dislessia e lo avevo portato in un mondo rovesciato dove qualcuno avrebbe dovuto difendere il nostro sonno con archi e frecce! Pensai ai nostri boschi, ai porcini, alle castagne, agl’ovuli, alla serenità dei nostri boschi. Nessun “lupo cattivo” ad aspettarci nel folto della foresta. Ma in quella notte africana, capimmo nei giorni a seguire, che se il lupo fosse arrivato avremmo alla fin fine dovuto dargli ragione del suo essere lupo.
La mattina apparve rapida e tutt’altro che silenziosa. Nel chiuso della macchina affrontammo due leonesse che a dire di Gemma non avrebbero dovuto essere dove erano. Adrenalina alle stelle e i fantasmi della notte dispersi da quella situazione così cinematografica. Poi l’arrivo nel centro della città. Un colpo all’anima: in una piazza come in un fermo immagine vidi migliaia di persone immobili per la fame. Mi fu chiaro immediatamente un pensiero: la miseria si arrabatta, si agita, cerca soluzione, ma mi fu altrettanto chiaro che la fame ti immobilizza, ti fa pietra. Pietra muta e parlante di un dolore non urlato, come il viso di una bambina nascosta sotto la nostra macchina. Apparsa all’improvviso con quel suo movimento da meccanico d’officina sospinto da un carrello. Occhi sbarrati che mi guardavano rovesciato dal basso verso l’alto, mi guardavano e mi mostravano la microscopica testolina del suo neonato che la bambina teneva fasciato sul suo “non-seno”. Feci quello che dovevo fare nascondendolo ai miei ospiti che si erano raccomandati di evitare qualsiasi pietà. Pietà che sarebbe risultata pericolosa per noi e per chi la riceveva.
Ma noi che lavoriamo fra i banchi, nei mercati, la destrezza comunicativa è i nostro pane quotidiano. Non so quanto allungai. So solamente che entrambi si fu salvi per un solo secondo. Quegli occhi di cerbiatta affamata si trasformarono in occhi di giovane madre pantera e in un balzo scomparve non vista.
Tutto tornò nell’immobilità. Uno sciancato arrancava con mano questuante. A lui sì, fu fatta da altri elemosina. La sua deformità vissuta come un tabù. A lui era lecito dar da mangiare.
Le macchine corsero via con i vetri schermati da un protettivo reticolo metallico. Superammo un blocco di polizia che pretese corruzione per finire nel sottosuolo di un albergo che si affacciava su una corte esterna dove un pazzo di piemontese si era trasferito con moglie e figli. Cuoco piemontese che nel trovarsi in mezzo ad un altrui fallimento aveva deciso di mettersi a fare quel che sapeva fare. Aveva chiesto e ottenuto di abbattere zebre che pascolavano in un numero strabiliante per carenza di predatori e si era messo a far bresaole. La sua storia più il profumo di quelle meraviglie sciolsero i nodi del mio stomaco. Allungai una fetta a mio figlio che nell’accettarla mi abbracciò forte come mai avrebbe più fatto. Al solito finì come solo noi italiani sappiamo fare. Il nuovo amico mi portò dal suo più grande amico, un guerriero Masai suo capocaccia. Ci sorrise mostrandoci la sua lancia e arrotolandosi nelle sue vesti e ci permise di sederci accanto a lui. Già! Quella era la sua terra, quella era la sua casa, quelle erano le sue zebre e quella era la sua bresaola. La bresaola più buona che abbia mai mangiato in vita mia.