Ho letto con un certo interesse l’articolo del Time che parlava della “fuga” dei giovani dall’Italia. Un fenomeno che non si può certo ignorare, tanto che questo stesso sito comprende una sezione dedicata specificamente ai “cervelli in fuga”. Il fenomeno mi interessa perché io stessa mi considero “in fuga” e, con un po’ di legittima immodestia, credo anche di essere “un cervello”. E, qui, a New York di miei “pari” ne ho incontrati tanti. Ciò che dell’articolo non condividevo, per puro vezzo, è quel titolo che fa riferimento ai “giovani”. Perché, in realtà, l’età riportata sul mio passaporto mi escluderebbe da quella categoria. Eppure, tre anni e mezzo fa, in un periodo della vita in cui normalmente si è già pianificato più o meno tutto e, anzi, addirittura si provano a raccogliere i frutti di quanto “seminato”, io, senza nemmeno troppo preavviso, ho deciso di emigrare. E ho deciso che la mia meta era New York, città difficile e complicata ma che era la mia perfetta casa per una ragione più di ogni altra: in questa città esiste il rispetto del merito umano e se vali ci sarà sempre un’opportunità per te. E al diavolo le raccomandazioni.

Riflettendo, dunque, sull’articolo del Time (che, ovviamente, in un paese normale dovrebbe finire sul tavolo di chi governa come memo del proprio fallimento e della propria responsabilita’ a contribuire, giorno per giorno, all’impoverimento intellettuale e sociale del Paese) mi sono detta due cose: la prima è che, nonostante l’età reale, io sono giovane. Perché è indubitabile che, da giovani, si ha la possibilità di “osare” di più e di rassegnarsi meno facilmente all’abbandono delle proprie aspirazioni. Altra cosa che mi sono detta è che, anche quando si emigra, si emigra in modi diversi. Ed è importante saperlo. Si emigra con delle certezze, spesso, magari piccole, ma certezze: un visto, un permesso di lavoro, uno stipendio, un lavoro, amici, familiari, una casa. Qualcosa che rappresenti una certezza dalla quale ripartire.

C’è chi emigra, però, solo con un “senza” nella valigia e la forza della disperata rivolta che ti parte dal profondo dello stomaco. C’è chi emigra “persino” senza certezze, senza nulla da cui ricominciare se non se stessi e la propria invincibile voglia di non arrendersi. Senza. Ecco come molti ricominciano la propria esistenza. Lontano dal proprio paese e con il peso del fallimento dietro l’angolo.

Io sono un’emigrante “senza”. E non ne sono fiera, quindi non ne faccio professione di orgoglio ma sento che è necessario aggiungere questo all’articolo del Time. Chi emigra “senza” è spesso come uno zingaro e qualcuno cantava di “aver visto zingari felici”. Forse non lo siamo ma sappiamo riconoscerci fra noi e conosciamo una New York (o una Londra, una Madrid, una Los Angeles) che ad altri rimarrà sconosciuta per sempre.

Rispetto profondamente la scelta di chi resta e non “abbandona” e comprendo che a volte si pensi a “noi” come a dei “privilegiati” o sorta di traditori che hanno voltato le spalle nel momento di difficoltà. Non è così. Credetemi, per quello che conta la mia parola. A distanza di chilometri, ovunque, noi “emigranti”, soprattutto noi “emigranti senza”, proviamo esattamente lo stesso dolore e la stessa rabbia di chi si sente ignorato da un Paese sempre più senza sogni e distruttore di meriti e di capacità.

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