“Se dovessimo dare la simulazione della pensione
ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”
Antonio Mastropasqua, presidente dell’Inps
Retributivo, contributivo, coefficienti, gestione separata, previdenza integrativa . È una selva oscura quella delle pensioni, dove non c’è nessun Virgilio che prenda per mano il precario e lo conduce tra i gironi infernali della previdenza del terzo millennio. Anche se una verità in fondo al tunnel c’è già: come ora ammette indirettamente anche l’Inps, i “giovani” una vera pensione se la possono dimenticare.
Sono passati quasi vent’anni dalla prima riforma – quella di Giuliano Amato nel 1992 – che ha completamente rivisto il sistema delle pensioni in Italia. Fino ad allora lo Stato era stato molto generoso con i suoi cittadini: tanti ricordano ancora le famose pensioni dei lavoratori pubblici (baby pensioni) che potevano godersi il “guadagnato” riposo dopo 19 anni sei mesi e un giorno di lavoro.
Ma è Lamberto Dini nel 1995, a capo di un governo tecnico appoggiato anche dal Pds, che dà il taglio maggiore al sistema della previdenza italiano. Fino ad allora era in vigore per i lavoratori il sistema “retributivo”: il calcolo della pensione avveniva in percentuale – spesso almeno l’ottanta per cento – rispetto alle ultime retribuzioni percepite. Ciò significava che, una volta lavorato gli anni sufficienti a ritirarsi (35 di contributi versati, o 57 di età anagrafica), faceva fede lo stipendio di fine carriera per il calcolo della pensione.
Dini inverte la rotta. E inaugura un nuovo corso scaricandolo interamente sulle spalle delle nuove generazioni. Si passa infatti al sistema “contributivo” nel quale la pensione è calcolata in base ai contributi effettivamente versati dal singolo lavoratore: la pensione diventa un investimento che il lavoratore si costruisce negli anni. Il meccanismo inoltre è aggiustato (al ribasso) da un meccanismo di coefficienti che, rivisti ogni dieci anni, adeguano le pensioni alle aspettative di vita: se è previsto che si riceva la pensione per più anni, rimanendo gli stessi i contributi versati, minore è l’assegno che si riceve. Si apre anche la possibilità di una “pensione integrativa”. Ovvero il giovane lavoratore possa pagarsi da solo una vera e propria assicurazione privata che gli garantisca un secondo assegno quando verrà l’età della pensione (o volendo, può garantirsi questa “seconda pensione” sacrificando il TFR, la liquidazione).
Ma non è solo questo il punto. Perchè repentino cambiamento imposto dalla riforma Dini non vale per tutti: chi nel 1996 può vantare almeno 18 anni di contributi, rimane al vecchio sistema retributivo (quello conveniente). Chi ha meno di 18 di contributi, entra in un sistema misto, per tutti gli altri, vale il nuovo sistema contributivo (quello meno conveniente).
Da notare che ai tempi sono molti gli interventi critici della riforma. Un noto giornalista moderato come Ferruccio De Bortoli, per esempio, nell’aprile del 1995, all’indomani dell’approvazione della riforma Dini, parla sul Corriere della Sera di “dittatura generazionale”: “Non possiamo ingannare gli italiani – scrive – facendo credere loro che fra vent’anni avranno ancora una pensione. Avanti così non avranno nulla. Rimarrà solo il rancore di essere stati sacrificati dai loro genitori e di essere rimasti vittime di una involontaria, ma spietata, dittatura generazionale“.
E dire che nel 1995 i contratti a termine, i co. pro., le finte partite Iva erano ancora a di là da venire. In tutti gli anni che seguono attraverso il “pacchetto Treu” del centrosinistra, poi la “Legge 30” o “Legge Biagi” del centrodestra, la precarietà in Italia diventa regola per i più giovani; inoltre non viene mai attuata la “seconda fase” prevista sia da Treu che da Biagi: adeguare lo stato sociale – tutto incentrato sui lavoratori del novecento con lavori fissi e contributi assicurati – ai nuovi lavorati precari.
Negli anni si susseguono altri aggiustamenti che peggiorano ulteriormente la situazione. Nel 2004 interviene l’allora ministro del welfare Roberto Maroni: il famoso “scalone” di Maroni stabilisce che non è più possibile andare in pensione a 57 anni, ma che ce ne vogliono almeno 60. Questo cambiamento avviene in un colpo solo – con uno scalone appunto – a seconda che si fossero o meno maturati i diritti entro il 31 dicembre 2007. Questo meccanismo viene poi diluito in più anni con il “Protocollo Welfare” del governo Prodi. Con questo intervento – che secondo molti calcoli riguarda appena 150 mila lavoratori, per giunta pronti ad andare in pensione con il metodo retributivo, quello più conveniente – viene speso quasi integralmente il famoso “Tesoretto” che Prodi ha a disposizione: ben dieci miliardi di euro con cui si sarebbe potuta attuare una riforma dello stato sociale che garantisse anche i precari (tra l’altro è sempre Tommaso Padoa Schioppa, superministro economico di Prodi a definire “Bamboccioni” i giovani italiani).
Questo il lungo percorso che ci ha portato fino ad oggi. La spirale sociale della previdenza la conosciamo tutti: si comincia a lavorare tardi, in nero o con contratti precari. Spesso, per chi si è affacciato sul mondo del lavoro negli Anni Zero, ci sono voluti almeno dieci anni per riuscire a strappare un contratto che garantisca il pieno pagamento dei contributi. E molti, inoltre, rimangono nel limbo dei contratti a progetto e della contribuzione separata.
Ora si scopre che l’Inps non permetterà a chi è iscritto alla “gestione separata” di poter fare online una “simulazione” della sua pensione. “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale” ha dichiarato appunto il presidente dell’Inps Antonio Mastropasqua. Cionostante i precari ormai hanno capito bene che una vera pensione non la vedranno mai. E che, forse, è ora di farsi sentire.