Oggi pubblico un articolo del numero 3-4/2010 del trimestrale Libertaria, il piacere dell’utopia che sarà presto in vendita nelle librerie in Italia (da Acri a Volterra, passando per Torino, Milano, Firenze, Roma…) e all’estero (Barcellona, Gerusalemme, Lione, Lugano, Montpellier, Parigi, Saint Imier, San Francisco, Sidney)
di Massimo Amato
La crisi finanziaria ed economica non sembra essere arrivata al suo epilogo. Anzi. E le risposte messe in campo dai vari governi si sono risolte in massicce iniezioni di liquidità. In pratica viene curata la malattia aumentando la dose dell’agente patogeno. Come uscirne realmente? Massimo Amato propone una moneta alternativa a quella del capitalismo. Ipotesi tutt’altro che utopica. Amato insegna storia economica all’università Bocconi di Milano ed è autore con Luca Fantacci di Fine della finanza (2009) e di Il bivio della moneta (1999), Le radici di una fede (2008)
Che questa crisi potesse «servire da lezione» alle élites economiche, molti lo hanno pensato fin dall’inizio. Salvo esserne presto delusi. Nessuno sembra aver cambiato di una virgola le sue posizioni. Non gli economisti che fino al 2007 avevano generosamente partecipato all’elaborazione di un’ideologia dei mercati finanziari come strumento di democratizzazione dell’economia. Non i banchieri e gli operatori finanziari che si erano incaricati di rendere l’ideologia una «prassi» «concreta». Non le autorità di controllo che, dopo aver abdicato per anni al loro ruolo, si sono accontentate finora di ribadire la centralità di una «regolazione» di cui sembrano ignorare i reali presupposti politici.
Con l’effetto che, sul piano pratico, la risposta alla crisi di liquidità scoppiata nel luglio 2007 si è risolta finora in un processo di tamponamento dei suoi effetti operato grazie a massicce iniezioni di liquidità. Si cura la malattia aumentando la dose dell’agente patogeno. Come mi è capitato di ripetere più volte, questo è semplicemente un modo per «uscire» dalla crisi presente, posto che ci si riesca, al prezzo della preparazione della prossima crisi.
Del resto, qualche segnale lo possiamo già constatare. Il tentativo di tamponare i buchi degli operatori bancari si è risolto nell’assunzione di debiti privati divenuti inesigibili da parte delle autorità pubbliche. Il debito privato è stato trasformato in una dose crescente di debito pubblico. E in alcuni casi, superata la soglia di rischio, sono stati gli stessi mercati finanziari salvati dagli Stati a metterli in ginocchio. Quella greca è la prima crisi del debito pubblico, ma non è affatto detto che sia l’ultima.
Eppure, un’altra strada è aperta, sia per l’interpretazione della crisi sia per la messa in campo di azioni volte a sormontarla. Questa «crisi di liquidità» è anche e soprattutto una crisi della liquidità: cioè l’entrata in crisi del modello della finanza come mercato della liquidità. Più i mercati sono liquidi, più il credito affluisce, in massa e a buon mercato, dai creditori ai debitori, assicurando i primi da ogni rischio e accontentando i secondi quasi indipendentemente dalla loro solvibilità, abolendo cioè ogni differenza fra «prime» e «subprime borrowers», fra debitori solvibili e insolvibili.
Rischio liquidità
Il rischio che i mercati finanziari avrebbero voluto ridurre, a beneficio della stabilità della crescita economica, è, infatti, non il rischio di credito ma il rischio di liquidità. Non, cioè, il rischio inerente a ogni atto di credito quando quest’ultimo sia volto a rendere possibile un investimento reale. Il rischio di credito dipende in ultima istanza dal rischio reale connesso alla imprevedibilità degli esiti di ogni investimento.
No: il rischio che si voleva ridurre era un altro, ossia il rischio per il detentore di un titolo di credito di non riuscire a liquidarlo con profitto su un mercato secondario dei titoli. In gioco sui mercati finanziari non è la pagabilità dei debiti ma la vendibilità dei titoli. In gioco non è dunque il rapporto fra un finanziatore-creditore e un investitore-debitore, ma la sicurezza del creditore di poter monetizzare in qualsiasi momento i suoi «investimenti» finanziari: una sicurezza che, qualora fosse ben assicurata dalle aspettative di mercato, lo potrebbe indurre anche a non monetizzare, lasciando che il suo denaro affluisca nelle tasche di «debitori» con i quali non ha più alcun rapporto diretto. Ma che appunto, e per lo stesso motivo, può in ogni momento trasformarsi in insicurezza e indurre, sulla base non di un sapere concreto ma di pure e semplici aspettative a liquidare tutto e a scatenare la crisi.
Ecco il paradosso dei mercati finanziari. La base su cui essi concedono o negano il credito per gli investimenti non ha nulla a che fare con la natura concreta di questi ultimi. In periodi di euforia, come per esempio dal 2002 al 2007, non c’era «debitore» potenziale che non potesse trovare «credito». Erano la banche a inseguire i loro potenziali clienti, offrendo a chiunque la possibilità di indebitarsi ben aldilà della sue capacità di restituzione grazie a un’offerta di rifinanziamenti apparentemente senza limite, e soprattutto senza fondo…
Ora, invece, ciò che siamo costretti a osservare, come il protagonista di Arancia meccanica, con gli occhi forzatamente spalancati, è invece il puro e semplice opposto di questa atteggiamento assurdo. Il credito è rifiutato per principio. Le banche «hanno chiuso i rubinetti del credito»: e non perché non abbiano soldi, ma perché nessun credito privato è sufficientemente sicuro da consentire alle banche di rinunciare ai loro attivi in moneta. Ciò che si finanzia ancora volentieri, ma operando già distinguo fra paesi «virtuosi» e «pigs», è il debito pubblico.
Ma allora che pensare di tutto ciò? Ciò che potrebbe saltare agli occhi, se solo ci togliessimo i paraocchi ideologici con cui siamo stati allenati a «guardare» alla «realtà» economica, è che questa crisi è la crisi di un modo di erogare il credito, che a sua volta riposa su un modo di concepire la moneta, che a sua volta genera un modo di concepire il rapporto fra credito e moneta. Si tratterebbe, insomma, di capire che la rinuncia a proseguire lungo la strada della liquidità non implica affatto la rinuncia al credito e ai suoi vantaggi per l’economia, ma la possibilità di ricorrere di preferenza a forme di erogazione di credito non fondate sulla liquidità. E, se la liquidità si fonda sulla rescissione del rapporto fra creditore e debitore in vista dell’investimento reale, ciò che dobbiamo ammettere almeno in via ipotetica è che l’alternativa debba fondarsi sulla ricostituzione di tale rapporto.
È importante sottolineare che tale alternativa è già in procinto di realizzarsi. In attesa che i guru si pronuncino, le imprese hanno cominciato a ovviare alla stretta creditizia facendosi credito fra loro. Lo strumento è antico e ben rodato: si chiama compensazione multilaterale dei crediti e dei debiti, in inglese clearing. Se A deve qualcosa e B che deve qualcosa a C, e così via, la scelta più ragionevole non è quella di costringere tutti a pagare, chiedendo i soldi che non hanno a banche che non li vogliono dare, ma di compensare il più possibile i debiti e i crediti fra di loro, riducendo il bisogno complessivo di liquidità.
Se ho un’idea produttiva e non ho i soldi per realizzarla in un contesto produttivo dato, la cosa più ragionevole non è quella di rivolgermi al «mercato globale dei capitali», sempre altrettanto pronti ad affluire come a defluire, indipendentemente dalla solidità del mio investimento; devo semplicemente trovarmi un socio di capitale, disposto non solo a partecipare i profitti, quando questi si generino, ma anche a sopportare i rischi e le perdite che possono sempre ingenerarsi in un’attività realmente economica. Anche in questo caso non c’è nulla da inventare: lo strumento è quello del venture capital.
Ciò che caratterizza queste due forme di credito è che esse non si caratterizzano come una compravendita di denaro, e che quindi non sono legate alla fissazione preventiva di un rendimento per il denaro prestato. Ma ciò significa che , ancora più in profondità, queste forme non presuppongono affatto che la moneta sia una merce. Il credito per compensazione abbisogna di una moneta che svolga solo la funzione di unità di conto, dunque una moneta che non abbisogna affatto di essere una riserva di valore. Il denaro conferito in una società non ha più la liquidità propria dei movimenti di capitale di portafoglio ma deve essere valutato in relazione alle potenzialità produttive effettive dell’impresa. In breve: questo credito si può fondare su un’altra nozione di moneta, e che a sua volta può fondare un altro rapporto fra moneta e credito.
Ma soprattutto questo credito, questa moneta, e questo rapporto fra i due non necessitano affatto di essere pensati in termini globali. Nessuna centralizzazione in un mercato finanziario della liquidità è davvero necessaria quando le relazioni di credito siano pensate a partire dalla loro localizzazione in un contesto produttivo reale. Al decentramento delle relazioni di credito può dunque corrispondere una moneta costruita per essere locale. «Locale» non significa «autarchica»: una moneta locale non veicola necessariamente contenuti politici di chiusura. Implica semplicemente la necessità di poter distinguere fra una dimensione locale dell’economia, legata a relazioni di prossimità fra «operatori economici», e una dimensione internazionale. E implica soprattutto una specializzazione delle monete. La nozione di moneta invalsa, che ci appare evidente solo a causa dei nostri paraocchi, si fonda invece sulla indifferenziazione funzionale della moneta. La stessa moneta che uso in un contesto locale deve poter vigere come moneta internazionale.
La moneta internazionale di Keynes
John Maynard Keynes non la pensava così. Nel 1944 a Bretton Woods egli propose l’adozione di una moneta internazionale nel senso più semplice e immediato della parola: ossia una moneta che non fosse la moneta nazionale di nessuno degli Stati chiamati a commerciare fra loro. Si scelse invece di adottare come moneta internazionale una moneta nazionale, il dollaro. E la crisi a cui stiamo assistendo è, fra l’altro, anche l’epilogo di questa decisione, mal fondata in logica e mal praticata in politica.
Dalla crisi non si esce affiancando al dollaro altre monete nazionali, ma provando a ripensare distinzioni che abbiamo perso l’abitudine di fare. Se davvero si iniziasse a ripensare tali distinzioni, allora tutto ciò che già ora, in forma talvolta ingenua ed «empirica» è in procinto di attuarsi, potrebbe essere attuato nell’alveo di una consapevolezza politica capace di guidare la fondazione di un’economia non semplicemente anticapitalistica, ma realmente alternativa, cioè costitutivamente altra dal capitalismo. E senza che questa decisione implichi una rinuncia ideologica all’economia di mercato.
Malatesta e il denaro
A proposito della «questione del denaro, questione grave quanto altre mai» Errico Malatesta sosteneva, con grande acume e senso pratico, il che non significa affatto senza solidità teorica, (cito da La rivoluzione in pratica, in Umanità Nova, 7 ottobre 1922): «D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicisticamente la questione dicendo che il denaro si deve abolire. E sta bene, se si tratta di una società anarchica o di un’ipotetica rivoluzione da fare da qui a cento anni, sempre nell’ipotesi che le masse possano diventare anarchiche e comuniste prima che una rivoluzione abbia cambiate radicalmente le condizioni in cui vivono. Ma oggi la questione è ben altrimenti complicata».
La questione è oggi ben altrimenti complicata perché, oggi ancora meno che al tempo in cui Malatesta scriveva, il rapporto fra rivoluzione e cambiamento del modo di pensare non può affatto essere pensato meccanicamente, in nessuno dei due sensi del rapporto d’influenza. Questa impasse del pensiero rivoluzionario ha alimentato negli ultimi decenni l’idea che «il capitalismo» non avesse più alternative, e che dunque la sua moneta fosse l’unica concepibile. Prendere o lasciare: o questo denaro o l’abolizione del denaro e il «ritorno al baratto». E tuttavia Malatesta sa che c’è qualcosa di ben più eversivo della «rivoluzione» come rovesciamento violento dei rapporti di forza: è il «passo di lato» che si smarca dall’apparenza di unicità con cui si contrabbandano concetti pensati a metà. La moneta del capitalismo non è affatto l’unica pensabile. Si tratta dunque di pensare la moneta e infatti Malatesta aggiunge: «Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del denaro, bisognerebbe cercare un modo perché il denaro rappresenti davvero lo sforzo utile fatto da chi lo possiede» .
Un denaro che rappresenti davvero il lavoro, anche il lavoro di chi si assume il rischio dell’investimento reale e non finanziario, non ha bisogno di essere pensato come una merce, non ha bisogno di un mercato monetario, non deve necessariamente generare una rendita: può invece rendere possibili relazioni di scambio e di credito che non si fondino sul presupposto che l’atto economico più «intelligente» sia quello di liberarsi da ogni rischio addossandolo ad altri. L’assunzione del rischio che è in gioco con una moneta alternativa a quella del capitalismo non è un dato morale, frutto di «buona volontà» che francamente non è il caso di dare per scontata in nessuno di noi né peraltro negare per principio a nessuno degli altri: è semplicemente il fondamento di ogni sana economia di mercato. La «rivoluzione della mentalità» dovrebbe passare innanzitutto da qui.