E infatti dopo mesi di pressioni sul consorzio, anche lì guidato dall’Eni, a gennaio del 2008 lo stato kazako riuscì a raddoppiare la propria partecipazione portandola al 16%.
Nel caso di Karachagank l’obiettivo è passare da zero al 10%. Per costringere le multinazionali ad aprire le porte a Kazmunaigaz il pressing è già iniziato. Il Kpo è stato accusato di aver aumentato i costi di estrazione tra il 2002 e il 2007 per un valore pari a 1,25 miliardi di dollari (l’inchiesta è stata chiusa recentemente senza conseguenze ufficiali per il Kpo), di aver estratto illegalmente gas e petrolio per 708 milioni di dollari, di aver evaso più volte le tasse e di aver utilizzato permessi di lavoro irregolari. In più, a metà agosto, il governo kazako ha reintrodotto una tassa sulle esportazioni di petrolio pari a 20 dollari per tonnellata. Un’accisa che era stata tolta dopo l’inizio della crisi finanziaria, ma che fino ad allora non veniva applicata su alcuni giacimenti tra cui quello di Karachaganak. Questa volta invece l’esecutivo kazako ha detto che dovranno pagarla tutti. Un pressing asfissiante che sembra aver già dato i suoi frutti.
Lo scorso 25 agosto, presente al meeting di Cl a Rimini, l’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, dichiarava: “Confermo che le trattative con il governo kazako sono in fase avanzata, ma ancora non abbiamo discusso di quote e cifre”. Alla luce di questa grande battaglia commerciale potrebbe essere letta la sentenza che costringe ad indennizzare una parte degli abitanti di Berezovka. In un paese solo formalmente democratico, dove il presidente ha un controllo capillare su tutti gli organi dello Stato, gli abitanti del villaggio si sentono niente più che un’altra arma di ricatto tenuta in mano da Nazarbaiev, improvvisamente deciso a far pagare alle compagnie straniere il prezzo di un’ingiustizia finora da tutti ampiamente tollerata ma mai resa nota, nemmeno ai cittadini italiani che di Eni sono gli azionisti di maggioranza.

di Stefano Vergine

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Il gas italiano che avvelena il Kazakistan

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