Per reagire al cappio di Trebondi-Giulmini che strangola teatri e atenei, i luminari del Sum (da non confondersi col Suv: Sum sta per Istituto di scienze umane) hanno radunato alla Bicocca di Milano gli stati generali dell’intellighenzia nazionale in una maratona di due giorni dallo stuzzicante titolo “Idee italiane. Un osservatorio sulla cultura del Paese”, che si conclude oggi. Tra i partecipanti Gae Aulenti, Pupi Avati, Giulia Maria Crespi, Umberto Eco, Ernesto Galli della Loggia, Vittorio Gregotti, Stefano Rodotà. Tutte persone degnissime, cervelli che il mondo ci invidia. Unico neo, l’età media: settant’anni e passa. Nell’Auditorium Pirelli, costruito da Gregotti per quell’intrepido capitano di industria che risponde al nome di Marco Tronchetti Provera, ieri si aspettava con ansia l’intervento di una delle più fresche promesse della scena culturale: Vittorio Sgarbi.
Sempre gli stessi nomi e volti
E poi Tremonti dice che Carmina non dant panem. Altro che, lo danno eccome, ma sempre agli stessi. Una cultura con molte rughe, strozzata da una politica con la blefaroplastica e il parrucchino: questo è il paradosso dell’Italia, il cortocircuito perverso che condanna il Paese alla stagnazione. Sai a cosa servono le chiamate alle armi di Fumaroli contro la “cultura di massa” (peraltro sdoganata a suo tempo da un guru della sinistra come Eco), gli strilli contro i tagli del governo, le tirate sulle “questioni ineludibili”, la società liquida, le connessioni comparative, la ricostruzione dei contesti, gli appelli al superamento della mai abbastanza esecrata “autoreferenzialità”. In questa terra non più di santi e poeti, ma di sarti, palazzinari e cognati, l’accademia è prigioniera di vecchi rituali corporativi e chi ha talento, soprattutto in campo scientifico, viene tenuto ai margini o costretto all’esilio. Alla Bicocca ci sarebbe piaciuto ascoltare qualcuno di quei tanti italiani under 40 che si fanno onore al Cern di Ginevra, al Mit o al Caltech: forse qualche ideuzza ce l’avevano. Ma quelli, alla corte di Tronchetti, come ad Arcore o a Palazzo Grazioli, è raro incontrarli.
È una storia che parte da lontano.
Come ci raccontano Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi in un puntuale saggio appena uscito da Bruno Mondadori (L’Italia degli scienziati, pagg. 326, euro 22), nel secolo e mezzo dall’unità nazionale, di geni e di inventori ne sono spuntati parecchi e molti di loro hanno dato un apporto non trascurabile alla crescita del Paese. Peccato che nei libri di storia non vengano quasi mai menzionati, anche perché politici, vescovi e burocrati hanno fatto di tutto per tarpargli le ali, nella maggior parte dei casi con successo.
Prendete Antonio Pacinotti, pioniere dell’elettricità. Non ha ancora compiuto vent’anni, nel 1860, quando di ritorno a Pisa dai campi di battaglia della Seconda guerra d’indipendenza si mette a trafficare nel laboratorio del papà fisico e riesce a costruire una piccola macchina in grado di produrre corrente continua. La “macchinetta elettromagnetica”, come la chiama lui, meglio nota come “anello di Pacinotti”, è insieme una dinamo e un motore elettrico: consiste in un anello avviluppato in una spirale di filo di rame, che ruota tra i due poli di un’elettrocalamita e produce col suo moto rotatorio una corrente nel filo. Cinque anni dopo, il ragazzo prodigio fa un viaggio in Europa per conto del ministro della Marina e intanto cerca di propagandare la sua creatura. Se ne pentirà amaramente, perché a Parigi un certo Gramme gliela ruba e la lancia sul mercato come propria. Del resto, a quell’epoca la nostra legge sui brevetti non proteggeva le invenzioni che non portassero a un prodotto industriale nel giro di uno o due anni e “l’anello” era ben lontano da questo traguardo. Nell’Italia appena unificata mancano industrie, capitali e imprenditorialità capaci di cogliere la portata dell’innovazione. E anche l’ambiente scientifico tarda a reagire, benché il padre di Antonio fosse un pezzo grosso dell’Università di Pisa. Tanto che quando, nel 1882, viene presentata la candidatura di Pacinotti all’Accademia dei Lincei, Quintino Sella commenta amaramente: “Non abbiamo apprezzato questa scoperta quando fu annunciata. Ora che tutta l’Europa gli rende onore, l’Italia deve stare indietro?”.
Per lo meno a Pacinotti è stata risparmiata l’odissea del povero Meucci, cui soltanto otto anni fa il Congresso degli Stati Uniti ha ufficialmente riconosciuto la paternità del telefono e che in vita dovette patire la fame e campare di elemosine mentre il rivale Bell diventava miliardario.
La parabola di un galileiano
Ma anche Galileo Ferraris, che di Pacinotti era stato allievo, andò incontro a una cocente umiliazione nel 1888, quando il suo “campo magnetico rotante” fu acchiappato dall’americano Nikola Tesla per depositare ben cinque brevetti di motori elettrici asincroni, subito acquistati dalla Westinghouse. Ma a differenza del maestro, il professore piemontese la prende con filosofia: “Chi nelle ricerche scientifiche avesse sempre di mira le applicazioni – scrive – non troverebbe mai nulla; e chi nel giudicare l’importanza di una scoperta non sapesse veder altro che l’utilità che essa può avere, proverebbe di non aver gustato mai la vera gioia del sapere”. E in un’altra occasione confesserà: “Ho visto che tutti attribuiscono a me la prima idea. Gli altri facciano pure i denari, a me basta quel che mi spetta, il nome”. A lui, forse, ma i suoi poveri compatrioti, che se ne fanno del nome, se non vedono i denari?
Queste vicende, come scrivono Guerraggio e Nastasi, confermano che alla fine dell’Ottocento l’Italia era ancora un paese estremamente giovane. “Terminata la fase di euforia per il raggiungimento dell’Unità, iniziano a emergere i problemi. Dalla poesia si passa alla prosa: il contesto sociale prende a condizionare, quasi come un freno, l’ambiente scientifico. La cultura industriale del paese e il suo apparato produttivo non sono ancora pronti a stimolare la ricerca e a recepire nel migliore dei modi alcune invenzioni geniali”.
A più di un secolo di distanza, in quella che nel frattempo si vanta di essere diventata la quinta potenza industriale del mondo, la musica non è molto cambiata. Chi fa ricerca continua ad avere vita dura. Del resto c’è abituato. Nel corso del Novecento, gli scienziati italiani hanno dovuto fare i conti prima con le leggi razziali che hanno espulso dal paese molti dei migliori cervelli, poi con le logiche spartitorie del sottogoverno democristiano e socialista, poi con le farneticazioni del Sessantotto e le lotte sindacali, per ritrovarsi oggi stretti a tenaglia tra i veti del Vaticano, le leggi repressive sulle staminali e gli ogm, gli intrallazzi delle baronie universitarie e un ceto di governo più interessato agli appalti e alle televisioni che alla ricerca e alla crescita culturale del paese. Il libro di Guerraggio e Nastasi si conclude con una sfilata di premi Nobel nostrani, da Emilio Segrè a Riccardo Giacconi. Sarà un caso che, a parte Giulio Natta, hanno fatto tutti carriera lontano dall’Italia?