Il giorno dopo il terremoto erano già al lavoro: architetti e ingegneri dell’Aquila si ritrovarono in un capannone industriale – uno dei pochi rimasti in piedi – alla periferia della città. Cominciarono così: scrivanie di fortuna, qualche computer e come studio una vecchia fabbrica.

Oggi sono passati diciassette mesi e visitando l’Aquila ti pare che la battaglia sia persa. E’ una città che sta morendo. Il centro storico con i palazzi crollati e le facciate puntellate da pali di legno (costati 120 milioni di euro) pare il set di un film western. La periferia è devastata: migliaia di palazzi cadenti, con la vegetazione che cresce oltre le finestre, dove una volta vivevano gli uomini.

L’Aquila di pietra non esiste più. Ma resiste nell’animo dei suoi abitanti che si ostinano a non andarsene. Che di giorno tornano per le strade del centro.

Non importa che l’Italia di fatto li abbia abbandonati, magari perché convinta che la ricostruzione sia stata compiuta. Gli abruzzesi resistono. E così anche quel gruppo di architetti. Oggi alcuni di loro hanno trasferito il loro studio in mezzo alla campagna alle porte dell’Aquila. Lavorano a progetti per far rivivere la città. Il primo, realizzato da un gruppo di ricercatori, progettisti, e tecnici per dare un contributo alla ricostruzione della città, è stato presentato nei giorni scorsi all’Expo di Shangai dall’architetto Camilla Inverardi, ultima discendente di una dinastia di architetti aquilani. A guardarlo ti accorgi che la grande tragedia del terremoto potrebbe anche diventare un’occasione per ricostruire secondo criteri innovativi, risolvendo i problemi che affliggono i centri storici (L’Aquila è una delle venti città d’arte del nostro Paese): parcheggi e tunnel sotterranei, smaltimento di rifiuti e produzione di energia secondo criteri ecologici.

E’ un’idea. Altre potranno arrivare. Che vinca la migliore. Ma l’importante è che all’Aquila ci credano. Ma noi italiani siamo con loro?

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