Il sito di Julian Assange, alle prese con la prima crisi della sua pur breve esistenza, nelle prossime ore pubblicherà 400mila file segreti sulla guerra degli Usa in Iraq. Sarà l'ennesimo scoop o l'inizio della fine? Il responso nella terra che rese famoso il sito nel 2007
Il conto alla rovescia è partito: tra poche ore, al massimo 48, Wikileaks pubblicherà oltre 400mila documenti sulla guerra in Iraq. Non cambia il marchio di fabbrica: anche in questo caso, si tratta di file considerati segretissimi dal Pentagono, che, al contrario di quanto accaduto in estate, non rimarrà a guardare e ad aspettare la deflagrazione dell’ennesimo caso mediatico. A quanto pare, infatti, è già pronto un gruppo di lavoro formato da 120 persone, che avranno il compito di scandagliare il materiale pubblicato e scoprire se ci sono documenti che possano generare altri scandali. A sentire il colonnello David Lapan, quindi, sarà importante comprendere quale potrà essere l’impatto della nuova fuga di notizie e agire di conseguenza. Strategia diametralmente opposta a quella messa in campo dal Pentagono a luglio scorso, quando su Wikileaks comparve l’ormai famoso “Diario Afgano”, oltre 90mila file top secret che rivelarono fatti e misfatti della spedizione Usa nella caccia ai Taliban.
Più dell’eco mediatica che potrà avere, però, la nuova pubblicazione rappresenta una conferma fondamentale della tenuta di Wikileaks, alle prese con la prima crisi strutturale della sua pur giovane esistenza (il sito è nato nel 2006). A parte la manutenzione che dura dal 29 settembre scorso e i recenti guai con la giustizia svedese (che in agosto spiccò un mandato di cattura – poi ritirato – con l’accusa di violenza sessuale), ciò che non fa dormire sonni tranquilli a Julian Assange è altro: le divisioni interne al gruppo storico della sua creatura. Qualcuno, come ad esempio Daniel Domscheit–Berg, ex numero due del sito, ha deciso di farsi da parte, contestando in toto la gestione fin troppo personalistica del progetto da parte di Assange; altri, invece, sono rimasti fedeli al capo, vedendo nella diaspora degli ex colleghi l’effetto di un momento di transizione fisiologico ai tanti successi. In parallelo, come se non bastasse, c’è anche un’altra spaccatura che rischia di incancrenirsi ancor più e che verte su un unico interrogativo: i nomi delle persone che collaborano con gli americani vanno inseriti nei file segreti da pubblicare oppure no? Nel “Diario Afgano” non c’è stato nessun omissis, il che ha spinto sia il Pentagono che le più importanti Ong del pianeta a a scagliarsi contro Assange per il suo comportamento, definito “scellerato perché mette in pericolo la vita di molti innocenti”. E nel “Diario Iracheno”? La conferma arriverà a breve e, a prescindere dalla scelta che sarà fatta, non mancheranno le polemiche.
Ma c’è di più, ed è su questo punto che Wikileaks si gioca futuro e credibilità. Tra gli scissionisti, infatti, ci sarebbe anche qualche tecnico, ovvero alcuni componenti della squadra che ha reso possibile il sistema dei “leaks”, la possibilità di pubblicare file sul sito rimanendo nell’anonimato. Sarebbe come se a un’auto in corsa si togliessero i cilindri del motore. Peggio ancora, poi, se qualcuno di questi tecnici portasse a fughe di notizie, un paradosso per il sito che dei “leaks” ha fatto la sua ragion d’essere. Al momento i pareri dei diretti interessati sono discordanti.
La prova è dietro l’angolo e sarà uno snodo fondamentale per il futuro di Wikileaks, che affronta l’esame più importante della sua vita ritornando sul “luogo del delitto”, nella terra che l’ha reso famoso in tutto il mondo. Era il 2007, quando il nome del sito e della sua mente Assange conquistò la ribalta dei media pubblicando un video che ritraeva la barbara uccisione di un gruppo di civili e di due giornalisti della Reuters da parte di soldati statunitensi. Dov’era ambientato il filmato? In Iraq: allora pietra dello scandalo e motivo di successo, ora banco di prova.