Rivoluzioni in atto al sistema del finanziamento delle università britanniche e il mondo accademico è in subbuglio. Ma non tutti hanno diritto di lamentarsi.
Il governo di Cameron ha proposto di liberalizzare le tasse universitarie. Notare che in primavera, il suo co-pilota Clegg voleva abolire le tasse del tutto, ma allora eravamo ancora in campagna elettorale e si strombazzavano titoli inneggianti alla grande riforma democratica. La proposta in sé non è cosa per cui scandalizzarsi. Già nel 2001 Tony Blair aveva messo un cap di £3000 annuali minime, le cosiddette tuition fees. Ma la revisione di Lord Browne di questa settimana ha stabilito un cap illimitato: ogni università sceglierà le cifre da imporre ai suoi studenti perché si conquistino il pezzo di carta. Il mercato libero e sfrenato entra in università e noi ci apriamo al modello americano: gerarchia, diversificazione, e stratificazione universitaria a go-go.
Ai miei tempi, nel pieno della ‘Cool Britannia’, ubriaca di slogan come ‘education, education, education’, non si pagava una lira o meglio, una sterlina, di tasse universitarie: a livello di principio, l’istruzione doveva essere accessibile a tutti, ma la selezione era dura e i requisiti per entrare rigorosi. In pratica non era per tutti, va da sé, ma si proponeva di esserlo.
In quindici anni, eccoci qui: con un cap illimitato le 20 università migliori del Regno Unito saranno tentate di alzare le tuition fees a numeri da capogiro. Se le cifre si aggireranno a una media di £7000, per quelle al top, come Oxford e Cambridge, c’è anche da considerare il costo aggiuntivo del sistema dei tutorials (che offre agli studenti supervisioni uno-a-uno con il docente): si vocifera di tasse che raggiungeranno £9000 annuali.
Era inevitabile, visti i tagli radicali annunciati la settimana scorsa ai finanziamenti pubblici delle università. Ecco i dati: 4.2 miliardi di sterline, corrispondenti all’80% dei fondi predisposti per l’insegnamento. Orrore e raccapriccio, ma anche questi vanno visti in prospettiva. Alzando le tasse, le università più prestigiose si difenderanno dall’accetta, e attrarranno i migliori accademici e studenti internazionali, aggiungendo lustrini alle loro già consolidate reputazioni. I fondi privati verranno potenziati a dismisura e non solo attraverso le tasse per gli studenti.
Le altre istituzioni (30 o 40, un quarto del settore in tutto) quelle che sopravvivono con approvvigionamenti statali fino all’80%, dovranno lottare per sopravvivere, perché, molto semplicemente, non potranno alzare le fees a dismisura: la loro reputazione non consentirebbe loro di arrogarsene il diritto, né gli studenti potrebbero comunque permettersi cotanto.
Vi lascio in bellezza con due considerazioni. Da oggi, qui, dobbiamo iniziare a scordarci l’idea di un’università fondamentalmente pubblica, accessibile a tutti. Non può esistere se vuol essere competitiva. Le università inglesi difficilmente potranno opporre resistenza a una repentina metamorfosi in business commerciali: docenti convertiti in agenti di mercato intenti a vendere corsi appetitosi, e studenti trasformati in consumatori attenti a comprare la loro fetta di scienza. E nella progressiva divisione tra università col pedigree che vantano superstar accademiche contro istituzioni in perenne lotta darwiniana per sopravvivere, mi chiedo con tristezza, dove finirà la tanto decantata mobilità sociale inglese.