C’è un principio sacro che dovrebbe animare qualsiasi governo e qualsiasi amministrazione locale: la salute dei cittadini non ha prezzo e non può essere sacrificata. Mai. A Terzigno (Campania, Italia) come a Berezovka (Kazakistan). Tantomeno può essere svenduta sull’altare degli interessi del mercato, cioè di grandi multinazionali o potenti soggetti economico-finanziari. Anche quando si potrebbe realizzare un guadagno per il governo o l’amministrazione locale.
Soprattutto le scelte compiute dalla politica, sotto la pressione delle logiche economiche, non possono prescindere dal volere della comunità, non possono passare sulla testa degli abitanti che ne subiscono le conseguenze, spesso perfino sotto il profilo della salute. Chi difende questo principio sacro non è affetto da ingenuità politica né può essere considerato una vittima della sindrome Nimby. Chi difende questo principio sacro è semplicemente animato dalla consapevolezza che quando lo Stato, a qualsiasi latitudine, baratta la salute dei suoi cittadini per interesse economico, muore lo Stato stesso e finisce il senso della politica, perché si impone lo smarrimento di una comunità che cessa di sentirsi tutelata da chi è preposto a farlo. Appunto lo Stato, la politica, il governo, l’amministrazione locale. Il giacimento di Karachaganak, nella steppa kazaka, terra di petrolio e gas, ci ricorda tutto questo. Oltre a ricordarci la necessità che il pianeta si incammini verso forme energetiche alternative, capaci di rispondere alla sfida climatica globale non più rinviabile (solare, eolico, etc). A Berezovka, infatti, ci sono 1.500 persone esposte a malattia, sofferenza, morte per garantire lo sfruttamento energetico del sottosuolo al consorzio chiamato Kpo Bv. Un consorzio formato da quattro multinazionali tra cui l’italiana Eni che, controllata da ministero dell’Economia e dalla Cassa Depositi e Prestiti, detiene una quota di maggioranza del 32,5 per cento (insieme alla inglese British gas).
Il gas del Karachagank contiene sostanze tossiche pericolose che si disperdono nell’ambiente durante l’estrazione, esponendo a patologie e morte la popolazione. Al governo kazako però pare interessi poco, tanto da non aver ancora provveduto all’indennizzo degli abitanti né al loro spostamento. Tanto da essere in guerra con le multinazionali per incassare la sua fetta di guadagno con l’ingresso nel consorzio, come ha documentato bene Il Fatto nell’inchiesta di Stefano Vergine. Poco interessa, ovviamente, alle grandi multinazionali coinvolte nell’affare. Cosa fare? In Italia una piccola ma importante iniziativa potrebbe essere affidata ai cittadini, che di Eni sono gli azionisti di maggioranza, i quali avrebbero ed hanno tutto il diritto di chiedere alla multinazionale una maggiore eticità nelle scelte aziendali compiute. Una politica di responsabilizzazione su pressione della cittadinanza che in verità dovrebbe riguardare tutte le realtà economico-finanziarie e industriali a partecipazione pubblica e statale. Sarebbe un segnale importante inviato da quegli italiani che non vogliono morire sotto i colpi di un business non solo disumano ma anti-umano. E che inoltre non vogliono sentirsi complici di questo delirio del mercato ad ogni costo, anche quando le vittime sono centinaia di km lontane. Come in Kazakistan appunto.