Davanti all’unico atto di fedeltà della sua esistenza, sentenziare l’abbandono definitivo di un vizio, sembra a Keith Richards, la più disonesta delle bugie. “Non ho smesso di drogarmi, attendo solo che inventino qualcosa di più interessante”. E intanto, l’uomo che fondeva spartiti, lampi di genio e voluttà, il dissoluto chitarrista dei Rolling Stones, la più importante band del pianeta, uno che santificava l’alba con la testa piena di eroina e cocaina: “la colazione dei campioni”, aspetta, che le copie di “Life”, l’autobiografia per la quale a 67 anni, ha ricevuto 8 milioni di dollari di anticipo, incendino le librerie e seppelliscano per sempre ricordi, amicizie, dubbi, canzoni, amori, chitarre, case e concerti.
Tutti morti, tutti normalizzati
Ce n’è per tutti. Basta aspettare. Il 26 ottobre, le pagine peseranno il doppio. A ogni aneddoto, una bastonata. La leggerezza, per un poeta, vale il peso dell’aria respirata. E quella di Richards ha attraversato contaminazioni continue. Così mentre inclina il sorriso diabolico e disvela al Times (partecipata traduzione di Dagospia, fin da sabato) i deliri di onnipotenza di chi davvero, agitando le folle, ha inciso nella collettività il senso della parola rock, Keith si diverte a rimembrare. Le rughe ondeggiano, le immagini si sovrappongono, le frecce partono. La faretra non teme mancati approvigionamenti. Il regolamento di conti giunge all’ultimo istante utile. I compagni di un tempo sono morti o normalizzati, Keith è rimasto il “figlio di puttana” di allora. Spietato, allusivo, volutamente volgare, ma divino nell’aver conservato a prezzo dell’abuso, l’intelligenza senza regole di un’epoca lontana. Nella confessione di Richards, nulla è risparmiato. Dalle misure amatorie dell’amico diventato nemico Mick Jagger: “Un cazzetto appoggiato a due palle enormi” al rapporto con i Beatles, i rivali di sempre, la band sulla quale assecondando opportunisticamente i lungimiranti scenari dell’Arancia meccanica immaginata da Burgess, i manager degli Stones costruirono senza difficoltà l’antitesi in musica di Lennon e Mc Cartney. Gli incontri con John, nel libro, scivolano via tra surreali lezioni su come tenere la chitarra e giudizi laconici che molto raccontano su come Richards, dissacrasse anche l’aria: “John, per molti aspetti era niente altro che uno stupido stronzone”. Nell’abitazione del Sussex, Lennon entrava con Yoko Ono e non di rado le giornate terminavano lisergiche come erano iniziate, a rimirare le piastrelle del cesso. Mescalina, lsd, hascisc e marjiuana e poi tutte le varianti in cui l’alcool permetteva di spingersi ancora più in là, nel buio del delirio, guidando per ore nella notte macchine da sultani, a fari spenti o senza, con relativa differenza.
Nei ricordi, le sfumature si confondono. Così in “Life” Mick Jagger diventa un’ombra incontrata alla stazione del feudo elettorale di Margareth Tatcher, Dartford, “un posto fetido, in cui chiunque ruba e pecca” nel 1961. E’ un prezioso frammento di discorso amoroso estratto da una lettera alla zia: “Ho incontrato un compagno delle elementari, conserva qualunque cosa Chuck Berry abbia mai inciso, si chiama Jagger. Mick Jagger”. Jagger, il cofondatore del gruppo, lo stesso ragazzino con cui attraversare senza paracadute la storia: “Diventato insopportabile all’inizio degli anni ’80”. Il pazzo con il quale superarsi in un gruppo di pietre rotolanti (in cui il senso del possesso annacquava le relazioni sentimentali nel ratto, nella competizione, nella paranoia e nel tradimento). Per Mick e Keith, il nono comandamento era un precetto da rispettare al contrario.
Così Anita Pallenberg, la moglie di Michel Piccoli in Dillinger è morto di Ferreri, la Angie dell’omonimo capolavoro scritto in gran parte da Richards “tutti i sogni che tenevamo stretti sembravano finire in fumo” la donna che visse due volte e anche di più, inseguendo amori disperati, fughe e elementi della band, offre il destro per una rilettura originale. Anita perdeva tempo con Brian Jones. Lo stone esiliato al tramonto dei ‘60 e poi celebrato da morto nell’happening di Hyde Park con i lepidotteri bianchi in volo, gli accendini, i rimorsi. Jones non prese bene la storia tra Anita e Keith: “Non mi perdonò mai e non lo biasimo, ma, cazzo, la merda capita a tutti” e prima di finire sul fondo della piscina della sua abitazione (a distanza di più di 40 anni, come accadde per il suo amico Hendrix, il mistero non si è dissolto) venne amato da Pallenberg ricambiandola a pugni. Così, all’ennesimo ricovero, stanca, Anita scappò con Richards e il rapporto (allora funzionava così) , prima di lasciare tracce, separazioni e figli (tre, uno dei quali morto prematuramente) prese il via con un pompino sul sedile posteriore di un macchinone con autista sulla tratta Barcellona-Valencia.
Di quella città, invece del porto o dei vicoli del centro, Richards rammenta altro. Il profumo degli aranci e il sesso: “quando Anita ti scopa, non dimentichi nulla”. Pallenberg poi, prima di perdere ogni riferimento a forza di strisce bianche e cocktail ad alto tasso iconoclasta, volle conoscere biblicamente anche Jagger. Accadde sul set di un documentario, metà installazione, metà presa diretta sull’abisso. Per cancellare il rancore, Richards volò nel letto di Marianne Faithfull, la fidanzata di Jagger, con la testa custodita tra “le sue bellissime tette”. Mick tornò a casa e Keith evase da galeotto, scappando dalla finestra, lasciandosi alle spalle l’acre sensazione che ogni passo successivo, compiuta la cesura, riportasse al dolore del triangolo, del desiderio che nulla rispetta e ogni cosa pretende e si prende. Così, a poco meno di mezzo secolo, accanirsi sulle doti amatorie dell’amico diventato nemico: “A Marianne non poteva bastare il minuscolo cazzetto di Mick appoggiato a due palle enormi”, somiglia a un paradosso. A una chiamata in correo, all’ennesimo schiaffo di un eterno dissidio che dovrebbe risvegliare il perdono, se per un eretico come Keith, e se ne può dubitare, il termine significhi davvero qualcosa.
Più provoca, più alimenta l’assenza
Perché più Richards offende, più alimenta la nostalgia. La ricerca del compagno di scorribande “ che non so più dove sia finito”. Il primo concerto è londinese, luglio 1962. Nulla sarà più come prima. E per capirlo fino in fondo, basta sedersi e omaggiare l’atto d’amore di Martin Scorsese, in commovente alternanza tra capolavori cinematografici e documentari sulla storia del Rock. Dopo aver messo un piede e mezzo in Woodstock del 1970, Scorsese ha proseguito. Da Bob Dylan ai Rolling Stones, cui ha dedicato Shine a light, sintesi di due concerti newyorchesi della band in cui movimento e musica, rabbia e ribellione, ritrovano sul palco un senso non evaporato nè sporcato anche a decenni da Brown sugar o Satisfaction: “Quando viaggio intorno al mondo e faccio questo e firmo quello, cerco di farmi qualche ragazza”.
L’unica ricchezza è nella musica
Il libro di Richards però non è un’apologia. Scava nella memoria per ferire, segnare il territorio, offrire verità non più rintracciabili. E’ un punto di vista estremamente personale. La visione di uno che prima di prestare il volto a Johnny Depp per i suoi pirati ed esserne profonda, unica ispirazione, è stato picaro e continua a esserlo. Aver visto il mondo dalle vette del successo planetario, sugli aerei presidenziali, acquistato dimore da sogno tra Turks and Caicos e il paradiso, aver guadagnato tanto da tranquillizzare il Pil inglese e mandrie affamate di parenti a venire, non lo ha turbato. Così prima di riconoscere Depp, amico del figlio Marlon e frequentatore dell’intimità familiare, lo aveva scambiato per altro. “Lo spacciatore di mio figlio”. Ecco, Richards è questo. Uno che se lo assolvi sputa in terra, un diavolo che sa che finirà sotto terra con i suoi omologhi con forcone e coda, un irriducibile che su altri scenari, non avrebbe saputo recitare. Quando Redlands, la reggia di famiglia brucia come in un racconto per fotogrammi di Danny Boyle, lui si preoccupa di salvare i fondamentali. La cassetta della droga, una sciabola. Niente documenti, perché alla fine, anche se la madre operaia, Doris, in punto di morte gli riservò perfida un giudizio da conservatorio: “Keith, devo dirtelo, sei stonato”, l’unico vero patrimonio di Richards è stata la musica.
L’accordatura aperta, il tocco, la magia. Così che Jagger venisse irriso con soprannomi non benevoli “Brenda”, “sua maestà”, e che Richards lo chiamasse senza nascondersi : “Quella stronza” oggi assume, tra un giudizio su Havel: “il mio politico preferito”, sulla democrazia e su stesso: “un gangster ricoglionito”, un valore minimo. Indietro non si torna, sul piatto rimane una bellezza senza mediazioni. Morte, saccheggio, amore. E’ solo un bacio, volato via per sempre.
Da il Fatto quotidiano del 19 ottobre 2010