Montecitorio rimanda gli atti al tribunale dei Ministri. Decisivi i voti dei finiani che parlano di un atto formale, perché mancano le carte del coindagato cardinale Sepe
Tre minuti alle 16 e la Camera decide. Respinta l’autorizzazione a procedre. Al centro l’ennesimo politico. Pietro Lunardi da Parma, classe ’39. Ex ministro alle Infrastrutture dal 2001 al 2006, quando correva il secondo governo Berlusconi. In fondo, nessuna novità. Visto che è dai tempi di Tangentopoli che il Parlamento non autorizza i magistrati a proseguire le indagini. Ultimo, clamoroso, esempio, l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino. Anche lì, blocco compatto. Nonostante il politico campano sia indagato per concorso in associazione camorristica.
Eppure lo scandalo c’è e sa tanto di inciucio politico con timbro autenticato dei finiani. Nientemeno che. Dopo le grandi battaglie sulla legalità portate avanti tra le secche dell’affaire monegasco. Lo scandalo c’è e sta scritto soprattutto nei numeri che oggi pomeriggio hanno salvato Lunardi: 292 voti a favore, 254 contrari e due astenuti su 548 presenti. E dunque: con il voto contrario dell’opposizione – favorevoli Pdl, Lega e Futuro e Libertà – la Camera ha accolto la richiesta della giunta, relatore Giuseppe Consolo di Fli, secondo cui, non essendo stati trasmessi alla Camera gli atti sulla posizione degli altri coimputati, mancherebbe “una completa prospettazione dell’episodio corruttivo”.
Cavilli formali, dunque. Che fuori dal palazzo si trasformano in un brutto pasticcio. Anche perché con Lunardi, all’ordine del giorno di oggi a Montecitorio ritornava il tema cricca. L’inchiesta. Le polemiche. E quell’atmosfera lattiginosa scritta e riscritta dai magistrati.
In quel pantano, Pietro Lunardi, ex ministro dall’elmetto facile, apassionato di inaugurazioni, trafori, strade, mulattiere, ci entra per una questione di palazzi e palazzinari. Sui quali tira aria crericale. Lui, infatti, risulta indagato per corruzione. Reato che si fa aggravato per il suo compagno d’inchiesta: il cardinale Crescenzio Sepe, attuale arcivescovo di Napoli ed ex presidente di Propaganda Fide, la Congregazione per l’ evangelizzazione dei popoli. Oggi Lunardi lo ringrazia, visto che la resituzione degli atti al Tribunale dei ministri sancito da Montecitorio dipenda dalla mancata notifica in parlamento delle carte che riguardano Sepe.
Giudizio rinviato, dunque. In attesa dell’ennesima replica. Nel mezzo, però, restano e rimbombano le carte che a dire dei magistrati inchioderebbero l’ex ministro alle sue responsabilità. Al centro un palazzo fra i tanti di questa inchiesta. Quello di via dei Prefetti a Roma. Dimora di lusso che sta nel patrimonio immobiliare di Propaganda Fide. La stessa decide di venderlo a tre milioni di euro. E questo nonostante una valutazione fatta e che tocca il tetto degli otto milioni. L’acquisto venne compiuto tramite l’immobiliare San Marco della quale era amministratore legale il figlio di Lunardi.
A sparigliare le carte, mettendo nei guai Lunardi e Sepe sono gli intrecci d’affari tra Angelo Balducci e Diego Anemone. E’ il 2005. Anno in cui Propaganda fide, in testa lo stesso Sepe, decide per investimenti immobiliari da 2,5 milioni di euro. Il nome dell’ex ministro viene fuori grazie alle dichiarazioni di Laid Ben Fathi Hidri, l’ autista di Anemone con delega a operare sui conti correnti dell’imprenditore. “Lui e Balducci – racconta – avevano rapporti molto stretti”. Prosegue e conferma tangenti portate da Balducci “mentre le imprese di Diego Anemone facevano ristrutturazioni di appartamenti di prelati e politici”. E Balducci, secondo i pm, è il vero burattinaio della compravendita del palazzo di via dei Prefetti.
Capita, però, dell’altro. Comprato il palazzo, infatti, Lunardi affida i lavori di restauro alla ditta di Anemone che va oltre e ottiene l’intera manutenzione dei palazzi di Propaganda Fide. Da qui ripartono i favori all’ex ministro. Tra le varie: lavori a basso costo per rimettere a posto la casa di Basilicanova. Gli intreccio prosegue. E snodo dopo snodo si ritorna in Propaganda Fide. Fu Sepe, infatti, a decidere per la vendita della palazizna. Lo amette lo stesso Lunardi. Che però nega l’ipotesi accusatoria dei magistrati che puntano il dito contro quei 2,5 milioni di denaro pubblico dati a Propaganda Fide per restaurare il palazzo seicentesco che ospita la sede di Propaganda Fide in piazza di Spagna. Un bel tesoretto che ebbe il via libera da parte di un decreto ministeriale firmato proprio da Lunardi.
Questo il punto da cui i magistrati volevano proseguire per fare chiarezza e casomai appurare l’innocenza dello stesso Lunardi. Ma così non è. Finora almeno. E fino a quando il tribunale dei Ministri non invierà le carte mancanti al Parlamento. Quando sarà, si tornerà a votare. Ma con quali prospettive? Le ombre sono tante. L’unica certezza e che oggi l’agenzia Agenzia alle 15 e 23, esattamente venti minuti prima della decisione della Camera, dava notizia che il palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna sarà riaperto il prosismo 9 dicembre. Dopo le ristrutturazioni finanziate dal governo.