Il favorito è il democratico Andrew Cuomo, procuratore generale. Ma la sua candidatura è l'ennesimo segnale di crisi del partito di Obama
Cuomo è uscito indenne dal dibattito organizzato ieri sera alla Hofstra University di Long Island. Presenti i sette candidati alla carica di governatore; sorvegliato speciale il rivale repubblicano di Cuomo, Carl Paladino, celebre per dire o fare sempre qualcosa di sbagliato: recentemente si è picchiato con un giornalista e ha detto che il gay pride è una cosa terribile. Il dibattito ha confermato che Cuomo è l’unico contendente dotato di una qualche credibilità. Il mondo colorato che si muoveva fuori dalla sala dell’università (millenaristi cristiani, motociclisti libertari, reduci della Corea) sbiadiva infatti di fronte ai protagonisti sul palco. Tra i candidati, si distingueva Jimmy McMillan, a capo di “The Rent Is Too Damn High Party” (il partito “dell’affitto dannatamente troppo alto”), che indossava guanti neri e parlava in terza persona; oppure la biondissima Kristin Davis, ex-tenutaria di un bordello che, avendo gestito le escort, si diceva ora pronta a far arrivare in orario la metropolitana. Proprio al momento dei discorsi di chiusura, Paladino guadagnava l’uscita alla ricerca di un bagno.
In mezzo a una farsa del genere, Andrew Cuomo non ha faticato a emergere. E’ apparso austero, affidabile, accondiscendente. Non ha risposto alle provocazioni di Charles Barron, ex Black Panther che l’ha accusato di aver avuto, come procuratore generale, la mano morbida contro la corruzione politica (“chiedere a Cuomo di farla finita con la corruzione, è come chiedere a un piromane di spegnere il suo incendio”). Soprattutto, ancora una volta, è riuscito a non prendere alcun vero impegno. Quando gli hanno chiesto tre programmi da tagliare per ridurre il deficit di bilancio, si è limitato a parlare vagamente di Medicaid e dei risparmi nel settore della scuola.
“Cuomo avrà vita facile alle elezioni perché il suo avversario repubblicano è impresentabile”, spiegava Harry Berger, avvocato del partito democratico, presente al dibattito. I repubblicani di New York sono del resto in difficoltà. La vecchia tradizione moderata alla Nelson Rockfeller si è esaurita; i nuovi profeti del Tea Party sfondano nelle campagne ma non in città (New York, Albany, Ithaca, Utica, Syracuse, Buffalo). E la guida dell “Empire State” resterà anche questo giro ai democratici. Ad Cuomo, ennesimo (presunto) progressista del mondo occidentale a dover gestire penuria di risorse e tagli. Il deficit di bilancio dello stato di New York raggiungerà l’anno prossimo i 15 miliardi di dollari. I tagli si abbatteranno con ogni probabilità sui trasporti (la Metropolitan Trasportation Authority di New York è un carrozzone vecchio e inefficiente), sulla scuola (l’anno scorso soltanto il 42% degli studenti di New York ha raggiunto il proficiency in inglese), sulla sanità.
“Cuomo è un po’ deludente”, spiegava timida Anne, una studentessa di Hofstra arrivata al dibattito con i compagni per sostenere il procuratore generale. Se ne sono stati seduti tutto il tempo, con i loro cartelli pro-democrats riposti sulle poltrone. La delusione di Anne è la delusione di molti militanti per un partito che due anni fa aveva alimentato i sogni, e che oggi si ritrova a gestire il disastroso esistente, producendo rabbia, disincanto e qualunquismo. Tre parole-chiave di queste elezioni. Tre buone ragioni per spiegare il tracollo democratico in vaste aree del Paese, e il successo tiepido di candidati come Cuomo in antichi baluardi democratici.
“Ho gestito un bordello. Posso gestire il palazzo del governatore”, ha detto la maitresse Kristin nel suo appello finale agli elettori. “Forza Yankee”, le ha fatto eco Andrew Cuomo.
Alcuni, tra il pubblico, si sono chiesti a chi spettasse il primato della non-politica.
di Roberto Festa (inviato negli Stati Uniti)
Una collaborazione Il Fatto e Dust (www.dust.it)