San Francisco. La notizia è arrivata in città all’ora dei notiziari della sera. Il Pentagono ha annunciato di aver iniziato da circa una settimana a “considerare le domande degli aspiranti militari che ammettono apertamente di essere gay o lesbiche”. Nelle stesse ore una giudice californiana, Virginia Phillips, ha ribadito il senso della sua sentenza della scorsa settimana: “Don’t Ask, Don’t Tell” viola i diritti costituzionali degli omosessuali. Gay e lesbiche devono poter servire nell’esercito.
“Big Deal”, bell’affare, commenta David, seduto da Mel’s, un diner sulla centrale Van Ness Avenue di San Francisco. David ha un’età indefinita, dai settanta in su. E’ magrissimo, ha i capelli rosso fuoco e lenti a contatto colorate, blu. Con il suo compagno mangia un cheeseburger e intanto guarda in televisione le notizie della sera. All’annuncio della decisione dei vertici dell’esercito, scuote la testa: “Come se ci avessero concesso chissà cosa”. Il suo compagno, un uomo alto e imponente che dice di aver fatto il Vietnam, è più prudente: “E’ importante, ma è tardi”.
San Francisco accoglie senza particolari entusiasmi la fine, ormai decretata anche dal Pentagono, della discriminazione che impediva agli omosessuali dichiarati di servire nell’esercito, in vigore dal 1993. Un rapido giro per i bar di Castro, di South of Market e di Polk Street, le aree a più alta frequentazione gay, non porta a molto. Nessuna festa, brindisi o celebrazione. Eppure la notizia, anche se attesa, è storica. Lo ha spiegato ai TG della sera Aaron Belkin, direttore di un think tank: “Per la prima volta in 65 anni, e per una settimana, gay e lesbiche hanno potuto servire liberamente tra i militari americani, e non c’è stata alcuna protesta o conseguenza negativa”.
“Forse siamo semplicemente un po’ stanchi. E le priorità sono altre”. Così Michael DiBello, incontrato da 440 Castro, uno degli storici ritrovi dei gay di San Francisco, spiega l’apparente mancanza di entusiasmo per l’apertura delle caserme agli omosessuali. Michael si riferisce soprattutto alla questione dei matrimoni nello Stato. Dopo che la Proposition 8 ha cancellato il diritto al matrimonio per gay e lesbiche, la battaglia legale continua: una corte d’appello sta considerando la materia, che finirà con ogni probabilità alla Corte Suprema. “Il problema – aggiunge Michael – è che spesso le aperture della politica, come nel caso della fine della discriminazione nell’esercito, arrivano troppo tardi. Quando la società è più avanti”.
Che la società, almeno da queste parti, sia più avanti lo dimostra la pacifica tranquillità di 440 Castro, frequentato in gran parte da coppie di 30-40enni; e anche la tranquillità che la questione gay ha assunto nel dibattito pubblico. Praticamente tutti i politici californiani – i democratici ma anche i repubblicani come il governatore Schwarzenegger e il candidato al Senato John Dennis – sono in qualche modo a favore dei diritti gay. Ma questa tranquilla accettazione non riesce a imporsi a Washington e in altre zona del Paese. “Obama aveva fatto tante promesse. Non ha mantenuto quasi nulla”, racconta una ragazzo che scrive per riviste online e che ha iniziato il giro serale dei locali della zona. Il presidente si è tenuto in effetti lontano dalla questione dei matrimoni gay. La battaglia si è arenata, e oggi soltanto cinque stati americani su cinquanta consentono agli omosessuali di sposarsi. Con la Corte Suprema dominata dai conservatori che sta per prendere in esame la questione, le prospettive sono tutt’altro che rosee.
“Ci sentiamo più soli rispetto a due anni fa”, dice il ragazzo, prima di allontanarsi. Il senso di isolamento è accentuato dai timori per il prossimo Congresso, a probabile maggioranza repubblicana, e dalle notizie di cronaca: tre giovani gay torturati al Bronx; un’epidemia di suicidi tra i teenager gay (l’ultimo, un 18enne di Rutgers University). L’annuncio del Pentagono di ammettere i gay fa poco per dissipare malumori e tristezze nella sera piena di nebbia di San Francisco.
di Roberto Festa
Una collaborazione Il Fatto e Dust (www.dust.it)