Ho incontrato Ignazio Cutrò qualche giorno fa a Palermo. Un nome che ai più non dice niente, nemmeno agli “addetti ai lavori”, a quelli che si occupano di mafia ogni giorno. Cutrò è un “imprenditore piccolo piccolo”, parafrasando il celebre film di Mario Monicelli. Un imprenditore che dopo 10 anni di angherie mafiose ha deciso di denunciare i suoi estorsori; grazie alla sua collaborazione è partito ad Agrigento uno dei più grossi processi a cosa nostra, “Face Off”, e grazie ad Ignazio, la cupola mafiosa di Bivona (AG) è stata decapitata.
Ignazio è entrato nel “vortice” della Giustizia quando gli inquirenti, intercettando alcune telefonate, scoprono che è costretto a sottostare allo scacco mafioso. Da lì la proposta di collaborare alle indagini, ma in assoluto segreto: nessuno saprà che lui sta parlando con gli inquirenti. Poco dopo c’è una fuga di notizie e la sua collaborazione diventa di pubblico dominio. Anche durante il successivo dibattimento, per paura delle ritorsioni, Ignazio nega alcuni aspetti che riguardano la sua collaborazione, arrivando perfino ad essere indagato per falsa testimonianza. E’ lì che decide di abbandonare ogni cautela e di raccontare tutto, sia delle vessazioni mafiose, sia della vicenda giudiziaria che lo vede protagonista. In pochi giorni diventa l’imprenditore “coraggio”, viene intervistato e invitato dalle associazioni e dalle scuole di mezza Italia. Parallelamente, però, le sue parole danneggiano le forze dell’ordine che avevano gestito la sua collaborazione, perchè mettono a nudo un bizzarro modus operandi che porta, tempo dopo, un capitano dei carabinieri a scrivergli un vero e proprio pizzino dal testo inequivocabile, durante una discussione sulla fuga di notizie che aveva messo a repentaglio la vita di Ignazio e dei suoi familiari: “la parola migliore è quella che non si dice”. Perfino chi lo deve tutelare gli volta le spalle.
Ignazio rimane solo ed isolato, il lavoro si dilegua, non riceve più commesse dai privati né tantomeno, ovviamente aggiungo io, dal pubblico. La sua sicurezza oscilla dall’auto di scorta blindata con due uomini armati ad una semplice utilitaria di “latta”. Il Confidi, il consorzio di garanzia collettiva dei fidi della Confindustria, che svolge attività di prestazione di garanzie per agevolare le imprese nell’accesso ai finanziamenti, nega la propria garanzia presso il Banco di Sicilia ad Ignazio, ridotto sul lastrico proprio a causa delle sue denunce antiracket. Citando quel diniego, il Banco di Sicilia a sua volta nega l’accesso al credito ad Ignazio, condannandolo al fallimento e addirittura al rischio di perdere anche la sua abitazione. A tutto ciò si aggiunge quella voce insistente quanto purtroppo attendibile, che ai piani alti della cosca abbiano già decretato l’omicidio di Ignazio. E, esperienza mi dice, che rimane pochissimo tempo prima che qualcuno esegua l’ordine di morte.
Di fronte a tutto questo, di fronte ad una morte annunciata, esattamente come nel romanzo di Gabriel García Márquez, in cui tutti sapevano che di lì a poco si sarebbe consumato l’orrendo omicidio di Santiago Nasar ma nessuno pensa di intervenire; anche a Bivona e ad Agrigento tutto tace. In Prefettura, ai piani alti dell’Arma, nei sindacati, in Confindustria. Silenzio.
Il dipartimento Antimafia dell’Italia dei Valori fa propria la battaglia di Ignazio Cutrò, e come responsabile gli do la mia parola che non lo lasceremo da solo. Ieri ho inviato una lettera al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia e al presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, chiedendo loro di mobilitarsi urgentemente per salvare non solo l’azienda di Ignazio, ormai clinicamente morta, ma anche la vita di un uomo che dopo essersi affidato allo Stato, dopo aver contribuito ad assestare un colpo micidiale alla mafia, è stato abbandonato da tutti. Attendo risposta. L’Italia dei Valori e il dipartimento Antimafia, senza troppi clamori e senza l’affannosa ricerca delle prime pagine, porterà fino in fondo questa storia, affinché Ignazio torni ad una vita normale e dignitosa e affinché la sua vicenda non sia l’esempio della sconfitta dello Stato ma sia lo stimolo per gli altri imprenditori a “saltare il fosso” e affrontare cosa nostra. Come ripete sempre lui, “quando attraverserò lo Stretto per lasciare la Sicilia non sarò io ad aver perso, ma lo Stato”.