“Sei stato bravo, tranne per quella frase finale…”. L’elogio critico sussurrato dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani al segretario generale della Fiom, Maurizio Landini – al termine del comizio di piazza San Giovanni, culminato sabato scorso nella richiesta di sciopero generale – fotografa perfettamente il momento particolare del maggiore sindacato italiano.
Alla vigilia dell’insediamento al vertice di Susanna Camusso molti osservatori, colpiti dall’efficacia di Landini, e dal colpo a effetto con cui ha costretto la Cgil a dire sì allo sciopero generale, si chiedono se non siamo di fronte a un rovesciamento del quadro: la Fiom che esce dall’angolo dell’estremismo storicamente residuale e impone la linea ai fratelli maggiori.
Landini non aggira l’ostacolo: “Noi non ci muoviamo mai pensando solo ai metalmeccanici ma con un pensiero generale che per sua natura è confederale. La Cgil ovviamente può cambiare, noi ci battiamo perché cambi anche perché abbiamo assolutamente bisogno di cambiare”. Con tutto ciò la scommessa del quarantanovenne saldatore di Reggio Emilia è chiara: deve imporre il suo linguaggio tutto sindacale a un’organizzazione abituata alla tradizione tutta politica di padri nobili come il predecessore Gianni Rinaldini (suo concittadino e “fratello maggiore”) e Giorgio Cremaschi.
Chi lo conosce bene sa che il consenso che conta, per Landini, è quello della “sua” organizzazione, del sindacato di cui è figlio e debitore. Non solo perché nella Fiom c’è cresciuto, da quando si iscrisse all’età di 15 anni, quando ha cominciato a fare il saldatore. Ma anche perché il lavoro fin dall’adolescenza e le scuole superiori saltate lo rendono diverso da gran parte del ceto politico e sindacale. Un autodidatta che si identifica totalmente nella dimensione sindacale. “La storia del partito Fiom non esiste”, spiega convinto, “è una sciocchezza che nasconde il vero problema: come fa la sinistra a rappresentare il lavoro? Noi non ci sostituiamo alla politica”.
La forza del comizio di piazza San Giovanni, se lo si ripercorre fino in fondo, non sta in abili trovate retoriche ma nella solidità degli argomenti, nella linearità dell’analisi. E soprattutto nella certezza di stare sul palco a rappresentare un’organizzazione forte, articolata sul territorio, ancora ben organizzata a differenza di altre realtà sindacali in declino. In un mondo politico zeppo di leader senza popolo o sopra il popolo, Landini è “l’espressione coerente dell’organizzazione”. E quando ha detto nel discorso conclusivo: “Se siamo qui non è nemmeno merito della sola Fiom ma degli operai di Pomigliano che hanno avuto la forza di dire no”, più che la battuta retorica ha cercato di rivendicare l’autentico radicamento della sua organizzazione.
A differenza dei predecessori Claudio Sabattini e Rinaldini, Landini è anche figlio di un sindacato che negli ultimi vent’anni ha conosciuto solo sconfitte e quasi mai vittorie, costretto a resistere e fare i conti con la spoliticizzazione che si è riversata anche nel sindacato. Con lui la Fiom deve fare i conti con la scomparsa della sinistra e con le disillusioni di un’epoca. Per questo fa presa sul popolo Fiom la sua voglia di ripartire proprio dal sindacato per ricostruire l’identità operaia e del lavoro, e per tentare la strada delle trasformazioni sociali. Per un’impresa del genere puoi affidarti o all’arte della politica-spettacolo oppure alla solidità dei tuoi rapporti interni. La strada scelta da Landini è la seconda. Lui scommette su questa organizzazione un po’ speciale che è la Fiom, un po’ squadra, un po’ famiglia, collettivo politico e umano tenuto insieme dalla figura un po’ mitizzata dell’operaio metalmeccanico.
Per questo sabato scorso si è fatto il giro dei due cortei in modo meticoloso, cercando di incontrare tutti, abbracciare tutti, e ricordare di essere uno di loro, uno della Fiom, un operaio che fa provvisoriamente il segretario generale. Per questo quando c’è un problema parte da Roma e va a farsi vedere dove serve: a Melfi, per i licenziamenti in Fiat, a Pomigliano, per la vertenza con Sergio Marchionne, a Torino, alla Fincantieri. Ieri era all’Università a parlare agli studenti, che lo hanno accolto come un eroe. Con i media invece è attento a non esagerare, e si concede la metà di quanto sarebbe richiesto. Non è per timidezza, ma per non farsi trascinare dalle bolle mediatiche, che alla lunga possono fare molto male. “Stiamo con i piedi per terra”, ripete ai suoi quando qualcuno lo riconosce per strada e gli grida “bravo Landini”.
E poi c’è l’orgoglio operaio. Landini è stato sempre dalla Fiom, non ha fatto il giro delle organizzazioni, non ha diretto pezzi di Cgil, sempre e solo la Fiom. Ma alla Cgil ci tiene. Quando si è messo accanto a Epifani, sul palco di San Giovanni, di fronte ai fischi della piazza e alle richieste di sciopero generale, non l’ha fatto per una semplice cortesia, ma per ricordare a tutti che quello che parlava era comunque anche il suo segretario generale. E molti di quelli che hanno visto le immagini, in piazza o in video, si saranno chiesti se non si stia preparando un futuro in cui il più grande sindacato italiano possa cercare il suo leader proprio tra gli “estremisti” della Fiom.