La biodiversità è fonte di ricchezza nazionale ma il suo valore non è rappresentato nel Pil e nelle altre statistiche ufficiali. Dal vertice di Nagayo una nuova proposta per politici ed economisti
Evidenziare come mai prima d’ora il valore economico della biodiversità promuovendone l’ingresso nelle statistiche sulla ricchezza accanto agli indicatori tradizionali come il Pil. Ma anche indurre i governi a scelte sostenibili in tal senso, sottolineando gli enormi costi sociali ed economici della gestione irresponsabile degli ecosistemi. Sono questi gli obiettivi principali evidenziati dal rapporto “Mainstreaming the Economics of Nature” presentato ieri nell’ambito della Conferenza delle parti della Convention on Biological Diversity tuttora in corso a Nagayo, in Giappone. La relazione è il frutto del lavoro triennale del Teeb (The Economics of Ecosystems and Biodiversity), il gruppo di lavoro composto da economisti e scienziati coordinati da Pavan Sukhdev, consigliere speciale del Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep).
Quanto valgono gli ecosistemi del Pianeta? Nessuno ha mai fatto il calcolo ma è certo, affermano dal Teeb, che la scala di riferimento è quella dei trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Un ordine di grandezza che permetterebbe agli ecosistemi di confrontarsi a pieno titolo con il peso dell’economia reale (la somma dei prodotti nazionali, 70 trilioni a parità di potere d’acquisto) e del mercato finanziario globale (qui le cose si complicano ma c’è chi ha parlato di un milione e mezzo di miliardi di biglietti verdi). Le stime diventano complicate, anche solo a livello locale. Occorre considerare molte variabili, valutare il peso economico dei benefici diretti e indiretti e, soprattutto, la capacità di una risorsa naturale (che non è la semplice materia prima da sfruttare in senso stretto) di influenzare positivamente o meno la qualità della vita e i costi economici.
Qualcuno, in passato, si è cimentato nell’esercizio, seppure su singoli casi. E i risultati si sono rivelati spesso sorprendenti. Lo sapevate che l’attività di impollinazione delle api svizzere vale 213 milioni di dollari all’anno e quella delle loro colleghe del Pianeta circa mille volte tanto? Avevate pensato che entro il 2012 l’impianto di 400 mila alberi a Camberra, in Australia, potrebbe generare benefici in termini di regolazione microclimatica e riduzione dell’inquinamento pari a 67 milioni di dollari? Probabilmente no, ma non dovete farvene una colpa. Anche tutti i governi del globo, a quanto pare, ne sono sempre stati all’oscuro. Il che, secondo il Teeb, rappresenterebbe una mancanza gravissima, soprattutto nel caso dei Paesi meno ricchi in senso “tradizionale”.
Già, perché “le risorse naturali – spiegano i ricercatori – sono comunque assets economici a prescindere dal fatto che essi entrino o meno in gioco nel mercato”. Prendete le foreste e gli ecosistemi. Si stima che il valore dei servizi offerti dalle stesse contribuisca fino all’89% del cosiddetto “Pil dei poveri”, ovvero dell’insieme delle risorse a disposizione degli abitanti delle aree rurali dei Paesi in via di sviluppo. Eppure questa ricchezza tende a sfuggire dagli indicatori tradizionali.
Se i governi diventassero consapevoli del valore del capitale naturale dei loro Paesi potrebbero prendere finalmente scelte diverse in base alla conoscenza delle opportunità di guadagno e dei costi patiti dalla collettività. In un mondo sempre più attratto dalla green economy, le prime tremila aziende del Pianeta, ha ricordato la società di consulenza britannica TruCost, hanno un impatto ambientale negativo che genera un costo totale di circa 2.200 miliardi di dollari all’anno. “Il valore dei servizi offerti dalla natura deve diventare visibile per entrare far parte dei processi decisionali – sottolinea Pavan Sukhdev – . Se non si farà nulla non si perderanno soltanto trilioni di dollari in termini di benefici presenti e futuri. Ma si impoveriranno ulteriormente i poveri e si metteranno a rischio le future generazioni”.
Non sappiamo se la relazione Teeb riuscirà a influenzare la futura agenda politica – magari replicando il successo del famosissimo “Rapporto Stern” che, nel 2006, sancì definitivamente l’accettazione del concetto di cambio climatico come esternalità economica negativa con tutte le conseguenze del caso – ma i segnali, in tal senso, sembrano già positivi. L’India ha annunciato l’intenzione di stilare un “bilancio” economico della sua biodiversità, un progetto che potrebbe trovare seguito anche in Brasile e Giappone. La definizione di parametri di calcolo condivisi, ha ricordato il quotidiano Guardian, spetterebbe alla Banca Mondiale che spera di coinvolgere nel progetto almeno una decina di nazioni. La pubblicazione dei dati sui primi “Pil ambientali” è prevista per il 2015.