“Ci sono due categorie di giornalisti: i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. I giornalisti giornalisti portano le notizie e gli scoop, ma portano anche dei problemi. I giornalisti impiegati fanno il loro compitino, stanno tranquilli e fanno stare tranquilli i capi”. Così il caporedattore, nel film Fortapàsc, spiegava il “mestiere” a un giovane Giancarlo Siani, cronista de Il Mattino assassinato dai clan camorristici per i suoi articoli. Daniele Biacchessi, caporedattore di Radio24, usa le stesse parole per ricordare Carlo Rivolta, giornalista morto ad appena 32 anni e ucciso, anche lui come Siani, da un male del suo tempo: l’eroina.
Rivolta era un giornalista giornalista. Che nell’Italia degli anni 70 scriveva solo per il lettore. Disse in un’intervista a Prima Comunicazione: “L’unica cosa che può fare un giornalista è dare al lettore tutte le notizie di cui dispone, assolutamente tutte, e renderle intelligibili”. Rivolta lo fece. Ma gli costò l’emarginazione. A Paese Sera, Repubblica, Lotta Continua. Erano gli anni del “o con noi o contro di noi”. A Lotta Continua lo guardavano male perché proveniva dal quotidiano “borghese” di Eugenio Scalfari. A Repubblica mal sopportavano il suo schierarsi “liberamente”, a prescindere dalla linea del giornale. In particolare durante il rapimento di Aldo Moro. La linea della fermezza non lo convinse mai. E non ne fece mistero. Per questo venne anche “condannato a morte”: nell’agosto del 1979 un comunicato delle brigate rosse, proveniente dall’Asinara e con primo firmatario Renato Curcio, lo condannò insieme a Mario Scialoja e a Enrico Deaglio. Rivolta fu attaccato anche dall’Unità, dagli autonomisti, dagli stessi colleghi. Si trovò sempre più emarginato, perso e abbandonato finendo nella spirale dell’eroina. Solo.
La storia di Carlo Rivolta è fedelmente ripercorsa da Andrea Monti, un giovane (25 anni) giornalista, nel libro “Travolto dal riflusso” (edizioni Ets). Attraverso le testimonianze di molti ex colleghi di Rivolta. Da Gad Lerner, Miriam Mafai, Enrico Deaglio, Bruno Manfellotto e altri. “Il talento sciupato di Carlo Rivolta spiega bene cosa sono stati gli anni Settanta in Italia: fede nella politica, passione civile, estremismi, sfide titaniche, autodistruzione”, scrive nella prefazione, intitolata “Un talento fragile”, Concetto Vecchio. Questi gironi Rivolta li ha passati tutti, fino a morirne. Dal libro emerge chiaramente anche una lezione di giornalismo. E a darla è proprio Rivolta, attraverso i suoi articoli. Forse incosciamente. “A me – disse in un’intervista – interessava essere un giornalista critico verso la mia professione e, dal punto di vista politico, un militante critico verso la mia stessa area di appartenenza. Il mio punto di riferimento è sempre stato il lettore. Tutto quel che venivo a sapere – intrighi, scontri, episodi poco edificanti – lo scrivevo, pari pari. Certo, non ero ‘obiettivo’, ma non penso si possa esserlo. L’unica cosa che può fare un giornalista è dare al lettore tutte le notizie di cui dispone, assolutamente tutte, e renderle intelligibili”.
Il libro sarà presentato questa sera a Milano alle 21 al circolo Arci Métissage in via De Castilla 8