Benché si tratti della manovra economica più “pesante” dagli anni Venti a questa parte (roba da far rimpiangere – ironizzano i colleghi inglesi – Margareth Thatcher), i cospicui tagli alla spesa pubblica da parte del governo britannico – annunciati in parlamento mercoledì scorso dal ministro delle finanze George Osborne – in Italia non interessano quasi a nessuno. Non fanno notizia. D’altronde, di tagli ne subiamo fin troppi già a casa nostra: non c’è tempo, né voglia, di preoccuparsi anche dei tagli degli altri.
Qualche commento sulla carta stampata, però, si è visto. E si è visto addirittura un editoriale. Quello pubblicato su “La Stampa” di ieri (21 ottobre), a firma di Bill Emmott, che inizia così:
“La scommessa è straordinaria: tagliare 500.000 posti di lavoro nel pubblico impiego, nell’ambito di un programma di radicale riduzione della spesa […]. In più, è una scommessa affrontata con un’audacia e una determinazione che pochi si aspettavano quando il partito Conservatore di David Cameron ha fallito l’obiettivo di vincere con una maggioranza netta nelle elezioni generali britanniche di maggio…”.
Segue una breve analisi. E la domanda: sarà davvero messa in pratica, questo programma radicale di riduzione della spesa?
Ex editor dell’Economist (e anzi, fautore alcuni anni fa di un riuscito rilancio della rivista), editorialista del “Times” e divulgatore di successo, Emmott è un osservatore privilegiato – in tutti i sensi – e conosce le cifre, i numeri, per sostenere il suo ragionamento. Ma sono le parole, qui, a colpire.
Perché quei termini “scommessa… straordinaria” associati a “tagliare 500.000 posti di lavoro” lasciano perplessi. Certo, occorrerebbe capire se il testo è estrapolato o adattato da un contesto specifico (nel qual caso bisognerebbe verificare ciò che riporta l’originale), o se è stato scritto e poi tradotto espressamente – come parrebbe – per “La Stampa”, che l’ha pubblicato. Sta di fatto che c’è qualcosa che stride. Che urta, anche.
Perché, malgrado la supposta oggettività e “neutralità” del linguaggio tecnocratico, non si può accettare come un assunto che la perdita di mezzo milione di posti di lavoro sia una “scommessa… straordinaria”. Una scommessa tanto più fastidiosa quanto più scopertamente ipocrita: perché è chiaro che chi scommette, in questo caso, lo fa sulla pelle degli altri. E comunque, ammettiamo pure che “scommessa straordinaria” stia qui per “impresa difficile, fuori dall’ordinario”. Ma che razza di impresa sarà (far) licenziare 500.000 persone?
Non vale la pena, né è corretto, accanirsi contro una traduzione. Ma certo vale la pena, invece, osservare meglio il linguaggio, di questi tempi. E denunciare l’uso demistificatorio che ne viene fatto. Non solo quando si parla di politica. Dove da sempre la lingua è potere. Ma anche quando si parla di economia. Perché non sarà un caso se le parole cuts (tagli), spending review (revisione della spesa), reforms, campeggiano da settimane, anzi mesi, sulle pagine di tutti i giornali inglesi, sulle bocche di tutti i commentatori, a bombardare e stordire l’opinione pubblica britannica. Convincendola dell’inevitabilità di quelle parole d’ordine. E quindi dell’inevitabilità delle misure che essere anticipano, comunicano, veicolano.
Fioriscono le parole feticcio (o Plastikwörter, ‘parole di plastica’, secondo il linguista Uwe Pörksen). Quelle che a forza di essere ripetute sembrano spiegarsi da sé. Che non hanno bisogno di glosse, di precisazioni. I cui significati diventano tautologici (è così perché è così…). Le misure sono “fair” (giuste), ripetevano ieri (21 ottobre) i ministri della coalizione di governo, commentando il piano di Osborne. “Fair” è diventata una parola alla moda (buzzword) nella politica inglese di questi ultimi mesi. E “fairness” (equità), scriveva alcuni giorni fa Jill kirby sul “Mail on Sunday” sembra essere diventato un “universal nostrum”, un rimedio universale (ma “nostrum” è propriamente il rimedio da ciarlatani, la panacea). È equo perché è equo. Punto. Ma equo per chi? Rispetto a che cosa? In che modo? Non chiedetelo a un politico, in Gran Bretagna. Vi risponderebbe probabilmente citando David Cameron, che alla conferenza nazionale dei Tories di inizio ottobre ha sentenziato “Fairness means giving people what they deserve – and what they deserve depends on how they behave”: equità significa dare alla gente ciò che si merita – e ciò che si merita dipende da come si comporta”. Che è come dire tutto senza dire niente. Alla faccia della “fairness” (onestà).
Parole feticcio esistono e si usano anche in italiano, eccome. Si pensi a rigore (e a mantenere il rigore: ma chi lo deve mantenere? Per quanto tempo? Con quali risultati?), sviluppo (ma quale sviluppo? A vantaggio di chi? A danno di chi? Se lo chiedeva già Pasolini…), emergenza, sicurezza (anche nel binomio ormai fisso “emergenza sicurezza”) crescita, modernizzazione, risanamento, ecc. Parole ripetute come un mantra. Usate per confondere, stordire. Non certo per definire, spiegare.
Parafrasando (frettolosamente) Gramsci, verrebbe da pensare che “ogni volta che affiorano, in un modo o nell’altro, questioni legate alla lingua, vuol dire che si sta imponendo una serie di altri problemi”: una serie di altre questioni che hanno a che fare con nuove egemonie culturali, politiche, economiche.
Mutatis mutandis, e fuor di (frettolosa) parafrasi, lo ha suggerito in altri termini George Mombiot sul “Guardian” di lunedì scorso (18 ottobre): per i falchi della finanza mondiale (a partire dal “teorico” Milton Friedman, guru della ultraliberista Scuola di Chicago), e per la loro sponda politica, i conservatori (non solo quelli inglesi), le crisi economico-finanziarie non sono un problema, semmai una straordinaria opportunità. Per ridisegnare i rapporti di forza all’interno della società. Per ristrutturare, a indubbio vantaggio del “capitale”, lo stato sociale. Senza peraltro dover spiegare perché e percome: perché è ovvio che è colpa della “crisi” (altra parola feticcio, a pensarci bene).
Di questa ristrutturazione la manipolazione linguistica non è di certo la sola arma. Né la più devastante. Ma è di certo una tra le più subdole.