LOS ANGELES – Tremila miglia per l’ultimo, forse disperato, tentativo di mantenere il controllo del Congresso. Barack Obama ha lasciato Washington ed è volato dall’altra parte dell’America, ad Ovest, per aiutare i democratici in difficoltà a reggere l’urto dei repubblicani. Si tratta del più impegnativo tour elettorale dai tempi della campagna del 2008. Cinque stati in quattro giorni. Il viaggio ha già toccato Oregon e Washington State. Oggi Obama sarà in California e Nevada. Sabato è la volta del Minnesota. Ai democratici in crisi di fiducia e identità, agli americani che continuano a seguirlo e ad amarlo, Obama ha chiesto di “sfidare quello in cui credono tutti”.

La verità che pare ovvia a tutti, e incontrovertibile, è che i repubblicani siano destinati a un largo successo, il prossimo 2 novembre (secondo alcuni, il trionfo potrebbe ricordare quello delle elezioni del 1994, che portarono al Congresso Newt Gingrich e i repubblicani del “Contract with America). La vittoria alla Camera appare certa. Il Senato è in bilico. Nella battaglia per i governatori, i democratici rischiano di perdere Stati come l’Ohio, la Pennsylvania, il Michigan, l’Iowa, il Wisconsin e il New Mexico. La crisi economica che si trascina, i tanti senza lavoro, il mercato immobiliare asfittico, due guerre difficili hanno fiaccato la politica di Obama e trascinato il presidente sempre più giù. L’umore è oggi di frustrazione, paura, rivolta populistica contro la politica. Proprio qui in California, due giorni fa, Sarah Palin urlava alle masse del Tea Party che è il momento della rivincita del “little guy” contro i baroni di Washington.

E’ questa sconfitta annunciata che il presidente cerca di evitare, volando per tremila miglia verso Ovest. La strategia dell’amministrazione è soprattutto una: portare al voto quelle parti d’America che decretarono la vittoria del 2008. Nei giorni scorsi Obama ha organizzato una conference call con i reporter dei principali giornali afro-americani, e ha invitato alla Casa Bianca leader e opinion-maker ispanici. Qui nel West si rivolge ai giovani, agli studenti (oggi parla alla University of South California) e soprattutto alle donne. L’elettorato femminile, tradizionalmente, tende a preferire i democratici, ma quest’anno un terzo delle probabili elettrici non sa per chi votare. Per convincerle, Obama è andato due giorni fa a Seattle e ha spiegato a un pubblico di sole donne le conquiste della sua presidenza: due signore nominate alla Corte Suprema, e il Lily Ledbetter Act, la legge che aiuta le donne a ottenere pari salari. (In effetti, le donne sarebbero tra le categorie più svantaggiate da un’eventuale vittoria repubblicana. Sharron Angle, eroina del Tea Party in Nevada, vorrebbe proibire l’aborto anche in caso di pericolo di morte della madre. E Ken Buck, repubblicano in corsa in Colorado ed ex-giudice, rifiutò testardamente di perseguire un caso di violenza carnale).

Non è chiaro quanto l’appello dell’ultima ora possa funzionare. A Seattle, sono arrivati in 10mila per ascoltare Obama, e altre migliaia sono rimasti fuori dall’arena dell’evento. A Portland è andata peggio. Soltanto 5mila i presenti (nel 2008, erano accorsi in 90mila per il futuro presidente). Soprattutto non è chiaro se Obama riuscirà a ridare forza e fiducia all’America che nel 2008 l’aveva portato alle stelle e che oggi appare delusa, stanca, disincantata. Una cosa appare probabile. Il Congresso in mano ai repubblicani, la Camera governata da John Bohner al posto di Nancy Pelosi, equivarrebbero alla morte politica dell’amministrazione. Praticamente ogni atto del presidente sarebbe soggetto a contrattazione con una pattuglia di repubblicani galvanizzati dall’umore conservatore e arrabbiato del Paese.

“Vinceremo. Vinceremo. Non permettete che si torni indietro”, ha ritmato Obama davanti alla folla di Seattle. Change e Hope erano le parole d’ordine del 2008. Oggi, per il presidente che rischia il tramonto, si tratta più modestamente di “non tornare indietro”.

di Roberto Festa (inviato negli Stati Uniti)

Una collaborazione Il Fatto e Dust.it

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