La casa editrice legata all'associazionismo cattolico e al mondo delle onlus dal 1994 pubblica l'omonimo settimanale. Oggi il lancio ufficiale a Piazza Affari: "Non perderemo la nostra identità e gli azionisti non percepiranno dividendi"
«Indipendenza, trasparenza, una sfida sociale e societaria». E ancora «Voglia di rottura nei confronti di una finanza che scarica macerie sopra le nostre teste». Sono parole da piccola rivoluzione culturale quelle che volano in una affollata saletta nei seminterrati di Palazzo Mezzanotte, a Milano, in occasione della quotazione in Borsa della casa editrice Vita, società legata all’associazionismo cattolico e al mondo delle onlus e che dal 1994 pubblica l’omonimo settimanale. Dalla mattina del 22 ottobre il no profit fa quindi il suo ingresso ufficiale in Borsa: lo fa con successo (il titolo Vita, poco prima di mezzogiorno guadagnava quasi l’8% a poco più di un euro, dopo un’apertura a 94 centesimi) e con modalità singolari. La neoquotata dell’Aim, il segmento di mercato italiano dedicato alle piccole e medie imprese, infatti, per statuto non distribuirà dividendi: una scelta dettata dalla volontà di reinvestire gli utili “per creare valore sociale e economico contemporaneamente”.
Il motivo della quotazione è principalmente la ricerca di capitali freschi per la crescita. Operazione andata a buon fine, visto che l’aumento di capitale si è concluso raggiungendo l’obiettivo prefissato di due milioni e mezzo di euro di nuovi fondi. Ma c’è anche la voglia di dimostrare che il no profit può rappresentare un valore economico. «Non è stato un percorso semplice – spiega a ilfattoquotidiano.it il presidente della società Riccardo Bonacina – ma alla fine, anche con la voglia di uscire da un meccanismo autoreferenziale, siamo riusciti a convincere la nostra base della bontà della scelta. In questo modo entriamo per così dire nel palazzo di Nerone, quello della finanza “cattiva”, delle Sgr, ma lo facciamo senza perdere la nostra identità. Anzi, siamo convinti di poter far crescere la voce della società civile e dei soggetti sociali e i nostri azionisti non percependo un dividendo dovranno credere nella crescita di valore della società».
Il piano aziendale di rilancio 2010-2012 prevede il raddoppio del fatturato, da poco più di tre milioni di euro a 7,5. Obiettivi che il management vuole raggiungere rinnovando la veste del settimanale Vita, che dal 12 novembre aumenterà la foliazione aggiungendo tre nuovi dorsi, e il consolidamento delle attività web e di quelle cosiddette di consulting. «Manterremo il prezzo di copertina di 2 euro – assicura Paolo Migliavacca, docente della Bocconi e amministratore delegato della public company – e pur volendo sviluppare il web e andare sempre più verso il modello di una società di contenuti, confermiamo che il nostro punto di partenza rimane la carta». Una decisione in controtendenza visto il momento di crisi generale dei giornali tradizionali. Caso più unico che raro, poi, in un momento di tagli generealizzati: la redazione verrà ampliata.
Come cambia la struttura azionaria della compagnia con l’entrata a Piazza Affari? Dopo la offerta pubblica di acquisto gli azionisti che superano il 3% delle quote sono solo 7. Il 29% delle azioni è vincolato da un patto parasociale, un accordo che in qualche modo blinda la maggioranza relativa, tra Fondazione Vita (al 15%/) e Pia Spa (14%), le holding che riuniscono i fondatori. Gli altri sono Iccrea Holding della Banca di Credito Cooperativo, il cattolico Istituto Atesino di Sviluppo, il Consorzio Gino Mattarelli, rete di cooperative sociali con sede principale a Brescia. E poi gli eredi di Carlo Caracciolo, rappresentati dal nipote Andrea Agnelli come consigliere indipendente, e la MaIS Spa, la finanziaria di Isabella Seragnoli, famiglia di peso dell’imprenditoria bolognese. Poi, diluiti con quote inferiori, troviamo una serie di nomi di spicco della finanza italiana: dalla finanziaria Mittel a Ternienergia, da Francesco Merloni a Unipol, alle fondazioni di origine bancaria. Complessivamente, sul pacchetto finale, il 38% è rappresentato dal non profit, il 9% da privati e il 53% dal profit.
Naturalmente c’è chi ha delle perplessità, non solo tra chi, nel mondo dell’associazionismo, non vede di buon occhio l’ingresso della finanza. Perché decidere di andare in borsa, si chiedono infatti altri, con costi significativi per una piccola realtà come Vita, e non chiedere piuttosto un finanziamento alle banche o decidere per un semplice aumento di capitale? «Tutte opzioni che abbiamo esplorato – spiega Migliavacca parlando con i cronisti dopo la conferenza stampa – ma la soluzione immediata per trovare capitali freschi ci è sembrata questa. In più, volendo mantenere una missione precisa, diversamente ci sarebbe magari stato il rischio dell’ingresso di qualche socio con quote pesanti. Così facendo manteniamo la nostra composizione e la nostra indipendenza».