Nel 1995 votai a favore della privatizzazione della Rai. Ci lavoravo da quattro anni con una serie di contratti da precario. Lo feci non perché volevo cedere a un imprenditore amico un bel business, ma perché avevo perso fiducia nella capacità della politica di gestire un’industria culturale che aveva fatto, nel bene e nel male, l’Italia. L’azienda, nella quale poi ho lavorato per anni e con la quale più indirettamente continuo talvolta a farlo, ha dentro di sé incredibili risorse non sfruttate, che da anni marciscono grazie al potere incrociato che domina l’Italia, i sindacati da un lato e il potere politico dall’altro. Il proliferare delle società private, in una delle quali attualmente lavoro, è stato visto di volta in volta come la salvezza oppure come la dannazione.
Quando ho cominciato insieme a molti altri della mia generazione ad avere contratti esterni con la Rai, in ruoli spesso di punta, gli “interni Rai“ ci odiavano. Apparivamo come dei ragazzi ambiziosi che accettavano un lavoro precario e non rientravano nelle categorie sindacali classiche. Lavoravamo senza pensare agli straordinari, durante i periodi di “fermo” obbligato (perché se eri precario non potevi lavorare più di alcuni mesi l’anno, altrimenti dovevano assumerti), speravamo solo di poter ricominciare presto a lavorare. Pensavamo in genere solo al “prodotto televisivo” perché eravamo stufi delle ideologie. Insomma, ci piaceva il mestiere. Se l’atteggiamento dei sindacati bloccava qualsiasi flessibilità in azienda, la politica, il potere più flessibile di tutti, imponeva le sue scelte sugli appalti, sulle persone che devono condurre i programmi, sulle promozioni che devono essere effettuate. Niente è cambiato, solo peggiorato. Il fenomeno dei portavoce dei politici, dei loro uffici stampa, dei loro campioni del mondo di P.R. al potere è sconcertante. Se dovessi dare un consiglio a mio figlio per trovare lavoro che non sia retorico, gli direi “qualsiasi cosa tu voglia fare, fai anche il portaborse di un politico, vedrai che qualcosa verrà fuori”.
La distruzione dell’industria culturale pubblica è quasi compiuta, ma al tempo stesso non è nata un’industria privata in grado di sorreggersi da sola. Le società private alla fine devono sempre render conto al committente, che sia la politica o Berlusconi (Rai o Mediaset). Il caso di Sky è atipico, ma a parte il caso del calcio e di pochi programmi fortunati, ancora troppo embrionale per considerarlo una compensazione al disastro dell’azienda pubblica. In qualsiasi paese al mondo, Santoro sarebbe un ricco giornalista (molto più ricco di quanto è adesso) ingaggiato da una televisione privata per fare ottimi programmi di informazione con un taglio editoriale condiviso e accettato dalla proprietà. In Italia, e non so se è una fortuna o una sciagura, ancora si pensa che esista uno spazio pubblico, che i cittadini siano “proprietari” della televisione pubblica, come se questa fosse un parlamento con i suoi rappresentanti. Fare servizio pubblico è qualcosa che si può fare allo stesso modo in Rai come a La7, come su Sky. Stare dalla parte dei cittadini non è una prerogativa acquistata in esclusiva dalla Rai. Identificare lo spazio pubblico televisivo con la Rai è una stupidaggine, e dobbiamo accettarlo. E’ al massimo un’utopia, e quando fu il centrosinistra al governo, fece molto poco per dimostrare che non lo fosse. L’ultima possibilità è stata persa, e se poniamo arrivasse qualcuno del Fatto a dirigere Rai1, siete sicuri che rispetterebbe Bruno Vespa? O tenterebbe di emarginarlo in nome di un “più qualificato giornalismo”?
Finché non avremo finito di distruggere quel che manca da distruggere (la finta committenza pubblica della cultura che è solo dipendenza più o meno subdola dai poteri politici), l’ambiguità non sarà sciolta. Solo dopo, quando la cultura sarà definitivamente messa sotto il cappello dell’economia, chi avrà un pubblico forte, o un potere finanziario al quale fa comodo, o un mecenate, potrà sopravvivere. Gli altri saranno spazzati via. Temo che questo giorno non arriverà mai. Un passo indietro della politica? Impossibile. L’informazione è una merce troppo ghiotta, gli appalti sono un guadagno troppo ghiotto, i benefit del mestiere più scintillante del mondo sono troppo attraenti. E quindi? Privatizzare la Rai, come hanno chiesto Fini, Aldo Grasso e molti altri da tempo? Ma se al tempo stesso non si fanno nuove leggi che consentano un mercato televisivo vero e non falsato dall’enorme conflitto di interessi che grava sul paese, sarà tutto inutile. Fare l’una e l’altra cosa insieme è l’unico modo di far crollare il castello di carte che sta facendo sprofondare l’Italia nel ridicolo.