Sui giornali di oggi si parla molto dell‘intervista che Sergio Marchionne ha dato ieri sera a Fabio Fazio, nella trasmissione Che tempo che fa. Le parole dell’amministratore delegato di Fiat sono state riassunte così: “Senza l’Italia faremmo di più” (Corriere della Sera).
E’ chiaro da mesi, se non da anni, che l’Italia non è più il mercato decisivo per il Lingotto. Per due ragioni: le utilitarie, punto di forza dell’azienda, si vendono con bassi margini di profitto e quindi sono redditizie solo nei mercati di “prima motorizzazione”, come il Brasile, che assomigliano all’Italia anni Sessanta che ha fatto le fortune della Fiat. In Italia i soldi si fanno solo con le 500 e le Ypsilon, cioè utilitarie di lusso vendute con un alto margine per l’azienda. Le Panda servono giusto per presidiare il mercato, quelle a metano (grande successo degli anni scorsi) poi sono addirittura impossibili da vendere senza incentivi pubblici. Seconda ragione: la produzione in Italia è troppo frammentata, sei stabilimenti producono meno di uno solo in Polonia, con gli operai che hanno una produttività troppo bassa (cioè a parità di tempo sfornano meno auto).
Nel 2009, considerando il livello ottimale (280 giorni di lavoro l’anno 24 ore su 24), Mirafiori è stata usata al 64 per cento della capacità produttiva, Cassino al 24 per cento, Melfi al 65 per cento, Pomigliano al 14 per cento e la molisana Sevel al 33 per cento. La fabbrica polacca di Tichy produceva al 93 per cento della capacità produttiva. Tutto vero, su questo Marchionne ha ragione.
Il problema è che l’ad non è un marziano sbarcato ieri sul pianeta Lingotto. Sono sei anni che è in quell’azienda. E basta leggere gli ultimi dati trimestrali per capire come la ripresina economica abbia fatto ripartire tutti i settori del gruppo Fiat tranne l’auto, e non è un problema solo dell’Italia. Le macchine agricole segnano +31 per cento nei ricavi, i veicoli industriali di Iveco +15, la componentistica +22. L’automobile, inclusa la Ferrari che sta andando bene, +1,3. Andare via dall’Italia migliorerebbe la situazione? Forse sì.
Eppure la situazione non era molto diversa in aprile, quando Marchionne ha presentato il suo maxi-piano di investimenti denominato “Fabbrica Italia”, 20 miliardi di investimenti in cinque anni. Perché programmare uno sforzo di quel tipo su un Paese che non rende e che non renderà? Davvero pensava che sarebbe bastato piegare i sindacati riducendo un po’ le pause e aumentando i turni per risolvere i problemi? Ma a che serve raddoppiare la capacità produttiva degli stabilimenti quando le vendite crollano del 30 per cento? Marchionne dice sempre che i nuovi modelli sono pronti, che arriveranno nel 2011 come risultato dell’integrazione con Chrysler e che allora gli stabilimenti funzioneranno a pieno ritmo.
Ma l’ultimatum che il manager ripete da qualche giorno – o i sindacati accettano tutte le richieste entro fine anno, o Fabbrica Italia salta – lascia pensare che il grande piano strategico non sia poi così strategico, se l’azienda può permettersi di cancellarlo da un giorno all’altro. E che questo stia per succedere.
I conti della Fiat miglioreranno? Di sicuro una riduzione della presenza in Italia si inserisce nella progressiva internazionalizzazione del gruppo che potrebbe culminare nella cessione di Fiat Auto, ora scorporata dalla parte macchine agricole e camion. Per l’Italia, poi, saranno problemi grossi. Con decine di migliaia di potenziali disoccupati. E il governo che finora ha osservato compiaciuto le spaccature tra sindacati, usando la vicenda Fiat per isolare Cgil e Fiom, avrà un problema non piccolo da risolvere. Sempre che non cerchi prima di comprarsi l’italianità di Marchionne a colpi di incentivi pubblici. Come si è sempre fatto e come sta facendo la Serbia per attirare la produzione che ora si fa in Italia.