Mestiere duro quello del giallista nell’epoca dei delitti efferati raccontati dalla grande ipnotizzatrice, la Tv. Come fare, infatti, a competere con gli ingranaggi perfetti di voyeurismo e intrattenimento, con l’intimità emotiva che garantiscono i vari Chi l’ha visto e La vita in diretta, con i fiumi di dettagli rigorosamente cinici, popolari, commerciali, in una parola reali, che provengono dalla quotidianità di cui tutti facciamo parte? Come può il giallo, questo secolare e nobile genere narrativo, affascinare ancora il lettore educato a una dimensione di intrattenimento globale che si serve contemporaneamente dalla stampa, della Tv e dei nuovi media?

Quando Truman Capote scrisse A sangue freddo (ed erano ancora gli anni Sessanta) la sua intenzione era quella di dare vita a un nuovo genere letterario, il romanzo-reportage. La motivazione profonda dello scrittore americano era dimostrare la crisi irreversibile delle forma romanzo, e la sua incapacità di rappresentare la complessità della società contemporanea. Il fatto di cronaca da cui trasse spunto fu l’assassinio di un’intera famiglia in Kansas compiuto da due giovani usciti di prigione in libertà vigilata. L’opera suscitò infinite polemiche di carattere letterario ed etico, polemiche alle quali non fu estranea la frequentazione assidua dei due assassini a cui Capote si dedicò allo scopo di penetrarne la psicologia e comprenderne l’abisso di abiezione. Dopo la vicenda di A sangue freddo, tanto lo scrittore Capote quanto il genere del romanzo-verità non furono più gli stessi.

Al di là delle implicazione di carattere morale, oggi, il mezzo preferito dal grande pubblico per la fruizione delle detective story, nonché il terreno su cui mettere alla prova le proprie capacità deduttive, è passato dal racconto tradizionale alla cronaca-spettacolo. Tanto per il genere narrativo, quanto per l’uso pubblico che viene fatto di vicende che hanno a che fare con omicidi maturati in seno alla realtà, si può parlare di forme di intrattenimento per le masse. Di fronte alla forsennata e crescente nevrosi collettiva che coglie moltitudini sempre più popolari di spettatori assetati di delitti, ci si chiede se abbia ancora senso che gli scrittori di genere continuino a costruire meccanismi narrativi artificiali sempre più articolati con l’intento di appassionare il pubblico dei lettori. Si sa, del resto, che Avetrana, Cogne e Garlasco, quanto ad appeal, hanno ormai superato la Vigata di Camilleri.

È infatti arcinota la tesi secondo cui nell’epoca attuale, in ogni ambito di produzione – sia essa letteratura, fiction, cinema o televisione – la realtà è sempre più coinvolgente dell’invenzione. La colpa non è della Tv né dei giornali che fanno del sensazionalismo. Giornali e Tv sono soltanto i media attraverso i quali si esprime una pulsione, e la pulsione dominante della contemporaneità risiede nel bisogno di autenticità.

Credo perciò che la domanda intrigante alla quale i critici e la comunità letteraria dovranno presto rispondere sarà questa: l’ipertesto costruito dai media intorno alla storia di un delitto efferato accaduto nella realtà potrà sostituire nei gusti del lettore/spettatore il romanzo giallo inteso come genere di intrattenimento letterario? O bisognerà magari attendere che si affacci sulla scena un Truman Capote capace di mettere ordine e dare forma legittima a un nuovo modo di raccontare una vicenda criminale?

Il tutto sempre con buona pace delle vittime. Anche quelle – ben inteso – rigorosamente reali.

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