L'ipotesi è chiara: meno affluenza più possibilità di vincere per i repubblicani. Per questo l'operazioen di dissuasione parte dalle minoranze ispaniche
Manca una settimana esatta al 2 novembre quando Lila e un gruppo di militanti democratici fanno campagna sulla strada che da Las Vegas porta a sud, in Arizona. Attorno non c’è nulla, soltanto la statale nel deserto e le macchine che sfrecciano senza fermarsi. Lila leva ben in alto, sopra il capo, un cartello giallo con una sola parola gigante: “VOTE!”. Quando è stanca, abbassa il cartello, e chiede ai compagni di passarle dell’acqua. “I repubblicani cercano di non farci andare a votare”. Lila, che è nata negli Stati Uniti da genitori ecuadoriani, si riferisce allo spot elettorale trasmesso da alcune televisioni in lingua ispanica, in Nevada ma anche in Florida, California, Texas, Colorado. Nello spot una voce dice, in spagnolo: “Non votare a novembre, è il solo modo che hai per mandare un messaggio chiaro. Che il tuo voto non è garantito”. I repubblicani hanno subito preso le distanze da questo appello all’astensionismo, ma non ci sono dubbi su chi ha prodotto lo spot: i “Latinos for Reform” di Robert de Posada, già responsabile del voto ispanico per il Comitato Nazionale Repubblicano.
L’appello all’astensionismo diventa poca cosa se comparato ad alcune iniziative annunciate dai vari Tea Party dispersi per il Paese. A Saint Paul, Minnesota, i supporter del nuovo populismo hanno promesso 500 dollari a chiunque denunci irregolarità nel voto, e organizzato per il 2 novembre delle ronde di volontari, altrimenti dette “surveillance squads”, per controllare che le operazioni elettorali si svolgano regolarmente. L’idea delle ronde è piaciuta ad altri Tea Party. Nella contea di Rockland, New York, raccoglievano la settimana scorsa adesioni per i turni di guardia davanti a scuole, chiese e uffici pubblici dove si vota. Alcuni non vogliono però aspettare il giorno delle elezioni per mobilitarsi. E’ il caso dei membri del Tea Party di Milwaukee, che hanno affisso in città manifesti dove si vedono alcuni individui dietro le sbarre, e una frase che dice “Abbiamo votato illegalmente”.
Tanta attenzione alle frodi elettorali farebbe pensare a un fenomeno grave e diffuso. Un rapporto del Dipartimento alla Giustizia americano ricorda invece che tra il 2002 e il 2008 sono stati soltanto 95 i casi di arresto per irregolarità nelle operazioni di voto. Eppure l’idea di un complotto per rubare voti e falsare i risultati è cresciuto in questi anni tra la destra populista e si è trasformata nella certezza di essere vittima dell’ennesima ingiustizia, dell’ennesima violazione dei propri diritti, dell’ennesima ferita al tessuto e alla fibra dell’essere americano. A un meeting del Tea Party a Pomona, New York, due domeniche fa, si dicevano sicuri che i risultati delle presidenziali 2008 erano stati ampiamente manipolati.
“Il risultato di queste ronde sarà soltanto uno – spiega Lila, l’attivista del Nevada -. Spaventare ispanici e afro-americani. Tenerli lontani dalle urne. E così, ancora una volta, come ai tempi della segregazione, il diritto di voto delle minoranze sarà limitato. Un tempo usavano i test di alfabetizzazione e l’obbligo della residenza, per non farci votare. Oggi organizzano le ronde”. Lei continua ostinata a tenere alto il cartello con la scritta “VOTE!”, ma le previsioni non sono buone. 43% di nuovi registrati al voto in meno in Wisconsin, 35% in meno in Indiana, 25% in meno in Ohio. Sono gli afro-americani, gli ispanici, i giovani, che dopo l’exploit di Obama tornano nella zona più grigia e triste della democrazia.
di Roberto Festa
Una collaborazione Il Fatto e Dust