Un paio di settimane fa qualcuno sul mio blog ha avviato una tenace discussione. Le sue argomentazioni erano solide, ben poste, e il confronto che ne è nato è stato duro e interessante. In molti hanno partecipato dicendo la loro. Dopo qualche giorno il feroce critico ha interrotto il dibattito dicendo una cosa che mi ha scioccato: “Bene, un saluto a tutti. Torno a casa (Florida), potrei collegarmi anche da là ma ho altro da fare. Comunque non è stata modificata neanche una parola dei miei post, dunque ok”.
La persona con cui avevamo incrociato le tastiere era parsa fino a quel momento preparata, aspra ma educata, dura su alcune questioni, ma onesta intellettualmente. Avrei detto che si trattasse di una persona abbastanza colta, di buon livello, che tra l’altro dichiarava di aver lavorato per anni in ruoli di rilievo e poi di aver scelto di cambiare del tutto la propria vita. L’identikit di un uomo in gamba, direi, che ragiona con la propria testa, che fa esperienza della vita, che ha coraggio. Quell’ultima frase, invece, lo ha fatto precipitare, e ha fatto trasalire me. Aveva sospettato che io edulcorassi i suoi post per mitigarne l’effetto e consentirmi di prevalere più facilmente nella discussione.
So bene che non viviamo in Alice e il Paese delle Meraviglie, qualche esperienza diretta credo di averla fatta. So anche che la comunicazione editoriale e telematica consente (favorisce!) mistificazioni e insincerità di ogni sorta. Mi rendo anche conto che siamo in un’epoca di tale decadenza che confrontarsi a viso aperto, tralasciare sovrastrutture e patemi può risultare assai difficile. Tuttavia scoprire che la persona che aveva ben combattuto sulle idee e sulle proposte era anch’essa preda di malizia e sospetto, dietrologia e sfiducia, mi ha fatto molto riflettere.
Giorgio Gaber disse un giorno una cosa che considero essenziale: “Io non ho paura di Berlusconi in sé, io ho paura di Berlusconi in me!”. Come dire che l’antagonista della nostra cultura, per quanto terribile egli sia, resta un mero antagonista (dunque ci consente ancora di batterlo) fino a che non ci entra dentro, fino a che non ci permea della sua cultura. Se lo fa, ha vinto, perché ci colonizza culturalmente, cambia i nostri valori. Quando gli assassini spingono una democrazia a reagire con la pena di morte hanno vinto.
Uno dei mali di questa epoca, tra i tanti, è la diffusione (per osmosi mediatica, per calo delle difese immunitarie etiche) dei valori della sottocultura imperante. Oggi è spesso difficile capire chi sta da una parte e chi dall’altra, perché i comportamenti non sono così diversi, le scelte non segnalano immediatamente la differenza. A furia di sentire gente ignorante che parla in televisione, a furia di constatare la pochezza intellettuale e morale dei rappresentanti sociali, della politica, della comunicazione, corriamo il rischio di diventare come loro, di reagire con le loro armi, di valutare il mondo dalla loro prospettiva. La battaglia, così, si fa ancora più difficile, perché oltre ad avversare la decadenza sul piano delle cose, della realtà, occorre farlo anche a livello interiore, cercando di diventare (e rimanere) “duri senza perdere la tenerezza”. Due nemici, dunque, invece di uno.