Sei milioni di italiani convivono con il rischio idrogeologico, tre milioni abitano in comuni ad alto rischio sismico, ventidue in zone a rischio medio. E’ un’Italia fragile e pericolosa quella che descrive il rapporto “Terra e sviluppo”, la prima relazione del Consiglio Nazionale dei Geologi sullo stato del territorio italiano.

Questa la fotografia di un Paese che vive male il rapporto con un ambiente ostile, minacciato per il 10% della sua superficie da frane e alluvioni, per il 50% da terremoti, e dove per decenni centinaia di migliaia di case, strutture pubbliche e fabbricati industriali sono stati costruiti in luoghi a rischio o senza tenere conto dell’impatto di eventi naturali disastrosi.

Secondo i dati dello studio, realizzato con la collaborazione scientifica del Cresme, nei 29mila chilometri quadrati della penisola ancora oggi classificati ad alto rischio frane e alluvioni, sono presenti un milione e 260mila edifici, fra cui 6mila scuole e 531 ospedali, mentre nelle aree ad elevata sismicità sono oltre 6 milioni gli edifici pubblici e 12,5 milioni le abitazioni a rischio terremoto. Un dato, quest’ultimo, reso ancora più inquietante dal fatto che il 60% degli edifici residenziali italiani è stato costruito prima dell’entrata in vigore della legge antisismica del 1974.

“E’ uno studio che fornisce un quadro oggettivo, completo e incontestabile sullo stato del nostro territorio – afferma il presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi, Antonio De Paola – che vuole essere anche una richiesta di maggiore attenzione da parte dei decisori politici sugli investimenti da compiere, per cercare di invertire un processo che costringe lo Stato a investire maggiormente sulle emergenze piuttosto che sulla prevenzione”.

Un appello alla politica, perché, di fronte a un territorio difficile ma ormai profondamente antropizzato, la battaglia contro i disastri naturali oggi è soprattutto economica e si gioca con investimenti per l’assetto del territorio, per la delocalizzazione o la messa in sicurezza degli edifici a rischio, per lo sviluppo di piani di emergenza. Una sfida che non tutte le regioni colpite dal rischio idrogeologico e sismico stanno vincendo, secondo i dati relativi alla spesa per l’ambiente investiti dalle singole amministrazioni negli ultimi dieci anni.

A fronte di un’incidenza media nazionale del 2,2%, in Lombardia, regione fra le più colpite dalle frane e dove 629 scuole e 70 ospedali sorgono su territori ad elevata criticità idrogeologica, appena l’1.5% delle risorse è dedicato alla tutela del territorio mentre nel Lazio gli investimenti sono fermi allo 0,6%. In Campania, dove oltre un milione di persone è esposta al rischio frane e alluvioni e la quasi totalità della popolazione (oltre 5 milioni) vive in territori ad elevata sismicità, il dato non supera il 2,5%. Migliore la percentuale del Veneto, dove, nonostante la regione impegni il 4.6% delle risorse complessive, sono ancora oltre centomila gli edifici esposti a rischio idrogeologico.

Con appena 27 miliardi di euro investiti negli ultimi dieci anni sull’assetto del territorio contro una spesa, dal dopoguerra ad oggi, di 213 miliardi per le conseguenze di terremoti, frane e alluvioni, l’obiettivo di sostituire i costi delle emergenze con la prevenzione sembra oggi ancora un miraggio. “Lo Stato pagherà per decenni il prezzo dei terremoti e dei disastri ambientali, incrementando ad ogni emergenza il proprio debito a scapito della prevenzione – continua De Paola – . I danni del sisma del Belice del 1968 hanno avuto ripercussioni economiche fino al 2010, mentre per l’Abruzzo si prevedono costi fino al 2032”. Il ministero dell’Ambiente indica a 40 miliardi il fabbisogno finanziario per mettere in sicurezza l’intero territorio nazionale. Agli attuali livelli di spesa e in assenza di calamità naturali ci vorrebbero 33 anni. E chissà quante altre vittime.

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