Sul Fatto del 26 ottobre e su questo sito Furio Colombo a proposito dell’intervista a Sergio Marchionne a Che tempo fa descrive l’ad della Fiat con antipatia. Non credo che la simpatia debba essere il tratto esiziale di un ad. Prima dello svizzero-canadese Sergio Marchionne, la Fiat era retta da Gianni Agnelli, l’Avvocato che da vero & proprio monarca sabaudo, che tutto possedeva, vedeva, controllava, faceva e soprattutto disfaceva, era un simpaticone. Talmente che della sua immagine regale erano intasate riviste gossip & cronache del jet set. Mentre in patria era tutto un ricamare, con molta circospezione & discrezione, delle sue magioni e delle sue barche, della sua famiglia e dei suoi flirt, della sua eleganza e soprattutto del suo proverbiale orologio sul polsino della camicia, citato a torto e a/traverso a ogni piè sospinto purché fosse e sia!
I più intimi o coloro che si spacciavano come tali, si riferivano a Lui con un semplice “Gianni”. Insomma bastava dire Gianni per ottenere il viatico d’appartenenza al ristrettissimo mondo dei vip, comunque immensamente migliore del supposto di adesso.
Mentre i rarissimi critici nei confronti di Gianni e del suo celebrato marchio di fabbrica – l’Avvocato teneva sotto controllo diretto o in/diretto gran parte della stampa che contava – quando non censurati o redarguiti, erano malvisti e finivano nel dimenticatoio. The national and international Avvocato come sorta di ambasciatore di un regno assoluto (il suo), piuttosto che di una Repubblica basata sulle divisione dei poteri, l’ultima delle preoccupazioni del Gianni nazional-popolare.
Persino la stampa così/detta di sinistra disavvezza a risparmiare il padronato cosiddetto, trattava l’Avvocato con la deferenza e rispetto dovute all’unico, vero magnate di un italian style industriale degli anni del boom e del contro/boom, cioè dell’infausto di poi.
E’ ovvio che in codesto clima di perenne encomio a cura dell’esercito di esegeti in servizio permanente effettivo del patron per antonomasia, era altrettanto ovvio che la Fiat con i suoi trascorsi, la sua vocazione monopolistica e soprattutto le sue scelte strategiche, cadesse in una sorta di criptica sordina. Tanto che nessuno osò mai parlare di conflitto di interessi, come invece nel caso del Caimano ancora al potere, nemmeno quando Gianni divenne senatore della futura repubblichetta di adesso.
Dati i miei smaccati pre-giudizi liberal e volendomi limitare soltanto a sorvolare sui trascorsi storici della Fiat, ricorro senz’altro al fù Luigi Cipriani, notevole figura dell’extra sinistra nonché parlamentare nelle liste di Democrazia Proletaria, il quale in Stragi & Strategie autoritarie, al capitolo il Vizietto degli Agnelli, verga:”La storia della famiglia Agnelli è costellata di connessioni col potere politico ufficiale e coi poteri occulti, massoneria, servizi segreti, a cominciare da quando la famiglia entrò in possesso della Fiat nel 1906”.
Il 23 giugno 1908 Giovanni Agnelli nonno di Gianni (…)venne denunciato dal questore di Torino per “illecita coalizione, aggiotaggio in borsa e falsi in bilancio” (…)come il maggiore indiziato delle manovre fraudolente in borsa che avevano turbato il mercato dei valori e arrecato danni rilevanti ai portatori di azioni. I mezzi fraudolenti consistevano nell’avere provocato nel 1905-1906 enormi ed ingiustificati rialzi delle azioni Fiat, sia col suddividere le primitive azioni, sia col porre dal marzo 1906 in liquidazione la Fiat per ricostruirla immediatamente dopo con un moltiplicato numero di azioni, sia con l’ingiustificato assorbimento dello stabilimento Ansaldo (…) epoca nella quale la Fiat si trovava già in una crisi che la portò sull’orlo del fallimento…
Il capo del governo di allora Giolitti vegliava sul destino di Agnelli (…) Il 29 novembre 1908 lo stesso ministro della Giustizia Orlando intervenne, con una pesante ingerenza nei confronti della magistratura torinese, affermando che “un’azione penale nei confronti di Agnelli avrebbe avuto conseguenze negative sulla nascente industria nazionale, in particolare piemontese”: regione d’origine del primo ministro Giolitti.
(…)Il 23 agosto 1909 Agnelli venne rinviato a giudizio per rispondere di aggiotaggio e truffa. Con la benevola attenzione del ministro Orlando e con ricorsi vari Agnelli riuscì a rinviare il processo sino al 21 giugno 1911, mentre già nel 1909, dopo le dimissioni, era tornato all’incarico di amministratore delegato della Fiat. Il 22 maggio 1912 il tribunale mandava assolto Agnelli e a nulla valse il ricorso del pubblico ministero, il quale nel giudizio di secondo grado si trovò di fronte, come difensore di Agnelli, l’ex ministro Orlando (…)
In seguito, durante la fase di preparazione della prima guerra mondiale, la Fiat venne favorita dal governo e ricevette moltissime commesse militari (…) Agnelli ottenne dal governo che Torino venisse dichiarata zona di guerra. Gli operai vennero militarizzati e persero le pur minime tutele sindacali, il diritto di sciopero e furono sottoposti al codice militare di guerra…
Come si vede c’era già tutto ma proprio tutto l’inesausto, ricorrente, non più sopportabile tormentone Agnelli-Fiat Voluntas Tua, comprese le attuali neoperipezie di libera & bella:connessioni col potere politico, poteri occulti, aggiotaggi & truffe, illecite acquisizioni, non osservanza delle tutele sindacali e via discorrendo. Con l’unica differenza, venendo a tempi più recenti, che al posto di acquisizioni illecite subentrarono le acquisizioni dementi.
I lettori attorno ai terzi anta ricorderanno la ricchezza del mercato dell’auto italiana tra i ’50 e i ’60, ricco di marchi come Lancia e Alfa Romeo ma anche Autobianchi, Innocenti, Abart, Zagato, Stanguellini e via discorrendo; per non dire dei carrozzieri come Pinin Farina, Bertone, Giugiaro, etc. A parte lo splendido design delle vetture italiane d’allora, c’era un’articolazione di mercato di nicchie che all’estero ci invidiavano. Praticamente la Lancia rappresentava quel che oggi è la Mercedes, l’ Alfa Romeo quello che oggi è la BMW, per non dire della miriade di piccole marche capaci di immettere sul mercato gioielli di motori & stile à la carte.
Quel che successe in seguito all’acquisizione di tutto ciò da parte della Fiat, determinò la scomparsa del mercato delle nicchie riducendo tutto a Fiat Voluntas Tua e le conseguenze stanno sotto gli occhi di tutti.
Furio Colombo conclude il suo editoriale puntualizzando che Marchionne dell’Avvocato non sa nulla. Ignorando se questo nulla sia figurato e/o sostanziale, controbatto dicendo che, avendo lavorato per la Fondazione Agnelli tra il ‘73/’74, qualcosa dell’Avvocato credo d’aver percepito. Entrai nella più prestigiosa fondazione culturale(sic!) italiota diretta da Ubaldo Scassellati che mi spedì in USA, con il compito di eseguire una ricerca sulle nuove tecnologie di informazione.
Rientrato in anticipo, al posto di Scassellati, rimosso in seguito al suo coinvolgimento nello scandalo “cinque per cinque” , trovai Gastone Favero il cui unico pregio era quello di essere uomo dell’allora premier Aldo Moro. Tanto è vero che dovetti riferire i risultati della mia ricerca sociologica al co-direttore, un tomber di talenti e simpatico viveur col quale Gianni andava alla Capannina, e a un fabbricante di giocattoli. Entrambi, in seguito alle mie previsioni sull’esplosione delle emittenti allora all’inizio, non trovarono di meglio che darmi del pazzo visionario.
Reagii sbattendo violentemente la porta e a nulla valsero i tardivi sforzi di recuperarmi in extremis, fissandomi una appuntamento con l’Avvocato. Che quindi non conobbi di persona, anche se questo aneddoto mi consente di restituire il livello del management Fiat già sul baratro del profondo rosso di questi lunghi, interminabili anni. Per sovra mercato rimarco che i dati e le informazioni da me raccolte in Usa, vennero utilizzate dai miei due soci dello Studio Intemedia 43 di Milano San Felice, per un esperimento di cable-tv a Milano 2, finanziato da un giovane costruttore e futuro premier che a proposito di Tele Milano ebbe a dichiarare “quella televisione fu la madre di canale 5 e di tutto il resto” (l’Espresso del 9/9/84).
A me Marchionne non è antipatico né mi sembra destituita di fondamento la sua analisi basata su dati anche internazionali, sui quali si può disquisire al vento, come si è sempre fatto in questo bel paesino ormai ridotto all’osso. Anche se in una deposizione francamente anomala – si è mai visto un ad riferire a un anchor boy le tattiche e le strategie del colosso industriale che presiede? – Marchionne le dice in parte giuste e in parte sbagliate.
A proposito delle prime, sulla bassa produttività e/o sull’assenteismo degli operai poniamo di Pomigliano, bisognerebbe sapere a chi è venuta la brillante idea di costringere al cartellino la capace di tutto, nel senso migliore del termine, mano d’opera partenopea. A proposito delle seconde, le cose sbagliate della deposizione, c’è anche quella di equiparare il prestito concesso dal Governo Usa alla Chrysler che la Fiat stavolta dovrà davvero restituire, mentre non ha restituito e non restituirà i milioni di ore di cassa integrazione, per non dire delle infrastrutture, a carico di noi soliti pantaloni e chissà per quanto tempo ancora. Sicuramente fino a quando i simpatici italiotti, a differenza poniamo dei poco simpatici britannici, continueranno a considerare le proprie imprese e industrie decotte, come altrettante squadre di calcio & calcio da esibire come fuorviante orgoglio nazional-popolare…