Liberals addio. Pare questo uno dei più probabili risultati delle elezioni del 2 novembre: la mancata rielezione dei deputati e senatori più progressisti. Gente come Russ Feingold, Barney Franck, Barbara Boxer, Tom Perriello, identificati con le (presunte) politiche assistenzialiste, spendaccione, “socialiste” di Barack Obama, travolti dall’ondata di nuovi repubblicani che promettono una tra le più clamorose virate a destra dai tempi di Ronald Reagan. Solo due anni dopo la vittoria di Barack Obama, il pendolo della storia americana sembra andare irrimediabilmente indietro, e battere la fine politica dei settori progressisti del partito democratico.
Il caso più emblematico è quello di Russ Feingold, senatore del Wisconsin, in corsa per il suo quarto mandato a Washington. Feingold è un politico insolito per quest’angolo di Midwest. Ebreo, avvocato, studi a Oxford e Harvard, divorziato due volte, una fede progressista tenace ed esibita. Sono caratteri che, apparentemente, potrebbero far felice l’elettorato liberal delle due coste, non quello più tradizionale del Wisconsin, la terra del senatore Joe McCarthy, un angolo rurale e cristiano d’America famoso per la produzione di latte, ginseng e bratwurst. E invece Feingold, da ben 17 anni, riesce a farsi votare da gente le cui idee e visioni della società sono agli antipodi del pensiero liberal e di sinistra (in Wisconsin, George W. Bush ha trionfato in entrambe le presidenziali).
In 17 anni, Feingold si è costruito una fama di democratico “di sinistra” che non ha eguali nella storia politica recente. Nel 2001, unico membro di tutto il Senato, vota contro il Patriot Act, la legge antiterrorismo voluta da Bush dopo l’11 settembre. E’ Feingold che guida l’opposizione alla guerra in Iraq, che si dichiara tra i primi a favore del matrimonio omosessuale, che organizza iniziative contro povertà e pena di morte. Sono voti, posizioni, campagne, che gli guadagnano l’odio e l’avversione di tutto il mondo conservatore americano, che nel 2006 definisce con disprezzo Feingold “il politico più progressista di tutto il Senato americano”.
Nonostante ciò, il suo elettorato – l’America dello heartland, proletaria, contadina, conservatrice – non l’ha mai abbandonato. Forse perché questa America ama i tipi testardi, indipendenti, di principio, e Feingold è tutte queste cose insieme. Nel 2002 collabora con il repubblicano John McCain a una legge per riformare il finanziamento della politica. In omaggio alla sua fede libertaria, difende il diritto degli americani a portare un’arma. E pochi mesi fa, è uno dei pochi democratici che vota contro la legge finanziaria di Barack Obama: “troppo moderata”, dice, non abbastanza pro-consumatori.
Quest’anno, al momento di presentarsi per il quarto mandato, succede però qualcosa. Anche in Wisconsin, come in tanti altri stati americani, salta fuori dal nulla un candidato repubblicano. Si chiama Ron Johnson, è un industriale della plastica senza un passato, e probabilmente senza un presente politico (Johnson rivendica il fatto di non avere un preciso programma. Dice: “Il mio biglietto da visita sono io, con il mio background”). Come in tanti altri stati americani, anche in Wisconsin gruppi conservatori anonimi pompano milioni di dollari per aiutare i candidati repubblicani (lo consente la nuova legge sul finanziamento della politica). Johnson vede fluire nelle sue casse 2,7 milioni di dollari da gente che, come unico scopo, ha quello di affossare “il senatore più progressista” d’America.
Il pessimo umore di un Paese travolto dall’insicurezza della crisi fanno il resto. Johnson, sino a qualche mese fa “signor Nessuno”, è oggi favorito nei sondaggi e proclama di voler “uccidere la sanità di Obama”. Feingold continua la sua battaglia. Rivendica di aver votato quella riforma sanitaria, “perché le assicurazioni non debbano più negare l’assistenza a gente che muore”. Dice che se fosse stato per lui, avrebbe iniettato nell’economia americana ancora più miliardi. Non ha paura di apparire “spendaccione”, statalista, progressista, mentre avanza la marea della destra più radicale e anti-Stato. Questa volta la strategia non funziona. “Feingold se ne deve andare”, diceva qualche giorno fa un suo ex-elettore, intervistato dalla radio pubblica. In tempi di paure e frustrazioni, la tranquilla indipendenza di Russ Feingold non è più una qualità.
di Roberto Festa, inviato negli Stati Uniti
una collaborazione Il Fatto e Dust