“Si informano i signori viaggiatori che il treno è fermo nei pressi della stazione di Desenzano per la presenza di rami sulla linea e ripartirà con circa venti minuti di ritardo”. Poi i rami diventano tronchi e i venti minuti da “stimati” si trasformano in “teorici”, come si affretta a spiegare il controllore a chi glielo chiede. Come da copione, infatti, non viene fatto nessun altro annuncio: il treno rimane fermo nel buio della campagna bresciana, dondolato dal vento.
Dopo quaranta minuti si spengono la luce e il riscaldamento. Inizio a pensare che passerò la notte in questa terra di nessuno con i volontari della protezione civile che, prima o poi, arriveranno a portarmi una coperta e un tè caldo. Per fortuna il mio computer portatile ha ancora un paio d’ore di autonomia. Mi metto in chat con mio fratello, aggiorno dopo mesi il profilo Facebook, cazzeggio su internet. Non sfuggo alla tentazione di controllare il sito dell’Ansa o Google News, per vedere se qualcuno dà la notizia, per sentirmi parte di un evento collettivo che, da Torino a Venezia, sta probabilmente coinvolgendo altri 2.000 sventurati come me su decine di regionali, freccebianche e freccerosse. Macché, nessuno si accorge di noi. Forse perché il ritardo è ancora troppo esiguo? Forse perché non ci sono stati incidenti o morti? Chi lo sa.
Intanto, tra un post, un tag e un twitt, arriviamo a due ore di ritardo. Passa una signora con un pacchetto di Tuc. Le chiedo dov’è il carrello bar. “Due carrozze più avanti”, mi risponde. Ma io rimango fermo, neanche la fame riesce a schiodarmi dallo schermo. Nel buio totale della carrozza 8 inizia la terza ora di sosta forzata nel nulla. “La corrente elettrica sarà ripristinata tra cinque minuti”, avevano annunciato un’ora prima. Ma non succede niente.
Eppure nessuno si lamenta, nessuno se la prende, che ne so, con il controllore, le ferrovie, con il governo, con l’Italia. Nessuno dice “se fosse successo in Germania, Norvegia, Olanda, saremmo già a Milano da un pezzo”. Attorno a me la gente parla tranquillamente al cellulare di locali dove si mangia bene, ricette, vestiti, scarpe, relazioni che funzionano e coppie in crisi, budget difficili da raggiungere e capi impossibili da sopportare. Siamo tutti ostaggi della rete mobile. A un certo punto penso che la rivoluzione, se mai dovesse scoppiare, sarà possibile solo quando tutte le batterie di tutti i cellulari, i laptop e gli Ipad del nostro paese o del mondo si saranno esaurite, senza la possibilità di ricaricarle.
Mentre mi perdo in queste riflessioni il treno riprende, incerto, la sua corsa. Raggiunge la stazione di Desenzano, dove si ferma per altre due ore. Arriviamo a Milano alle due del mattino con 375 minuti di ritardo. Per me è un record e quasi ne sono orgoglioso. Potrei dormire da un amico, ma decido di toccare con mano il fondo dell’abisso. Mi metto in fila all’assistenza viaggiatori e, sorprendentemente, Trenitalia mi assegna un taxi in meno di un quarto d’ora. Arrivo a Como alle tre in compagnia di quattro americani. Randy e Charlotte, due ventenni pallidi del Minnesota, sono eccitati dall’avventura. Hanno perso tutte le coincidenze possibili e tireranno mattina. Io invece mi incammino verso casa, dove consumo quel che resta della cena.
Il giorno dopo controllo ancora le agenzie di stampa, ma non c’è nulla. Per oltre sei ore una delle linee ferroviarie più importanti d’Italia è rimasta bloccata, ma nessuno se ne importa. Su google news, ricercando “treni”, trovo una notizia ben più importante, rilanciata dall’AGI: “Ghana, nuovi treni per i pendolari”. Da oggi “due moderni treni renderanno più agevole il viaggio ai pendolari dalla capitale Accra a Tema, situata 50 chilometri a est”. Il viceministro dei Trasporti, signora Dzifa Attivor, ha affermato che il suo governo intende “dare sempre più peso ai trasporti su rotaia e, per incoraggiarne l’uso, manterrà una politica dei prezzi ragionevole”. Una visione lungimirante per un paese in crescita.